Quando abbiamo smesso di capire il mondo? È il titolo di un bel libro dello scrittore cileno Benjamín Labatut edito da Adelphi, perfetto per parlare del presente: in nessun altro periodo della storia recente ci siamo trovati di fronte un sistema di segni, codici e sensibilità sociali così messo in crisi, polarizzato e ostaggio di scontri sempre più arcani e irrisolvibili.
Io sono Davide Piacenza, e Culture Wars ogni venerdì parla di casi in cui i nuovi codici, l’inclusività e i valori e i discorsi intorno al politicamente corretto agiscono riplasmando il mondo, in Italia e all’estero.
Siamo arrivati alla quarta puntata: pensate che longevità. E già che ci siamo: merry Xmas, eh.
La virtualità della molestia
La settimana scorsa Meta, la compagnia che controlla Facebook, ha aperto al pubblico Horizon Worlds, il suo social network in realtà virtuale, presentato come una sorta di spassoso Minecraft in cui fino a 20 persone possono riunirsi coi loro avatar ed esplorare spazi virtuali in condivisione nel very hyped Metaverso, la nuova frontiera delle nostre vite connesse: l’alternativa perfetta ai brindisi di Natale ai tempi delle varianti di coronavirus, giusto?
Sbagliato. O meglio: magari lo diventerà, ma per ora il futuro in realtà virtuale ha fatto parlare di sé per problemi antichi. Il 1° dicembre la stessa Meta ha rivelato che una beta tester della piattaforma ha condiviso su un gruppo privato di Facebook un’esperienza di molestie sessuali di cui è rimasta vittima su Horizon Worlds. Vivek Sharma, vicepresidente di Horizon, ha definito l’accaduto «assolutamente spiacevole», spiegando però che si tratta di «un buon feedback per noi».
Un ottimismo motivato dal fatto che, secondo quanto spiegato dalla società, la donna palpeggiata non avrebbe attivato un tool fornito in dotazione all’utenza, “Safe Zone”, che consiste in una bolla protettiva che, quando è attivata, impedisce agli altri avatar di interagire col proprio.
Già ti sento: ah, ci mancavano le molestie virtuali, come se avessimo risolto il problema di quelle reali. A complicare ulteriormente il tutto, però, c’è che non solo la differenza tra reale e virtuale è meno immediata di quanto si potrebbe pensare, ma il fenomeno non è nemmeno così nuovo: se ne parla almeno dal 2016, quando la gamer Jordan Belamire scrisse una lettera aperta su Medium per denunciare un abuso subito su Quivr, un giochino in cui personaggi in realtà virtuale dotati di «un elmetto che galleggia nell'aria e le mani» danno la caccia agli zombie. Scriveva Belamire:
All'improvviso, l'elmetto senza corpo di BigBro442 mi si è parato davanti. La mano galleggiante del suo avatar si è avvicinata al mio corpo e ha iniziato a palpeggiarmi il petto virtualmente
Derubricare esperienze come queste a semplici eccessi di suscettibilità, se non direttamente a problemi da primo mondo, è una tentazione golosa ma un po’ pigra: l’associazione specializzata Digital Games Research Association ha passato in rassegna le reazioni alla lettera pubblicata su Medium da Belamire, trovando che buona parte dei commentatori non consideravano quella occorsa alla ragazza una vera molestia sessuale.
Ma cos’è una vera molestia? Secondo Jesse Fox, professoressa della Ohio State University che si occupa di implicazioni sociali della realtà virtuale, sentita dalla MIT Technology Review, «le molestie sessuali non hanno mai dovuto per forza essere una cosa fisica». Ovvero, basta la volontà di umiliare sessualmente la vittima di turno.
E tu – per citare i migliori social media manager di questo sciagurato Paese – che ne pensi?
Professori, fascisti e poster boy
All’università Sciences Po Grenoble non c’è pace per una vicenda con protagonista il professore di tedesco Klaus Kinzler. Il prologo dei fatti risale a novembre del 2020, quando l’ateneo stava organizzando una settimana di appuntamenti dedicati all’uguaglianza e alla lotta alla discriminazione. Alcuni prevedevano incontri tra docenti e studenti, e uno in particolare girava attorno a un dibattito su «Razzismo, antisemitismo e islamofobia».
In alcune email scambiate con due colleghi e alcuni studenti del gruppo, Kinzler aveva avuto da ridire sull’equiparazione tra i tre fenomeni, dicendo di non amare «particolarmente l’Islam», che anzi lo spaventa, «come spaventa molti francesi». Alla fine Kinzler si scuserà con gli interlocutori per due volte, ma «islamofobia» sparirà dal titolo del dibattito.
A marzo, nel campus universitario di Grenoble appaiono dei poster che fanno riferimento allo scambio via email, già parzialmente pubblicato alla fine del 2020 da rappresentanti del sindacato studentesco Union Syndicale. Riportano il nome di Kinzler e slogan come «fuori i fascisti dalle nostre aule» e «l’islamofobia uccide», e sono ripresi da foto e messaggi postati ripetutamente da alcuni studenti sui social network. Kinzler e un collega sono messi sotto protezione da parte della polizia, viene avviata un’indagine.
Sulla vicenda si è espresso anche l’ispettorato generale dell’istruzione superiore francese, con un rapporto in cui ha trovato «che tutti coloro che sono coinvolti in questa vicenda si sono resi colpevoli di errori di valutazione, goffaggini, lacune e colpe, più e meno gravi, più e meno numerose». Lo stesso Kinzler, infatti, è andato a fare il giro delle sette chiese televisive definendo il suo ateneo una «scuola di rieducazione politica» votata all’indottrinamento del «wokismo», cioè quella corrente di militanza politica in voga nei campus nordamericani che ha reso l’inclusione una ragione di militanza talvolta cieca e controproducente (ma il termine, è bene ricordarlo, è altamente controverso).
E, a quattro mesi dalle elezioni presidenziali francesi, la vicenda è diventata un caso politico nazionale. Esponenti di destra e di centro hanno chiesto che l’istituto venga posto sotto controllo esterno, altri – come François Jolivet – hanno chiesto una commissione parlamentare d’inchiesta sulla libertà di espressione nelle università francesi. Di recente, in una decisione salutata con entusiasmo da Marine Le Pen, il presidente della regione Rhône-Alpes Laurent Wauquiez ha sospeso i finanziamenti regionali a Sciences Po Grenoble.
La vicenda è complicata, ma riassume (e ricomprende in sé) alcuni dei cardini delle guerre dei campus americani: il professore dalle posizioni conservatrici messo alla gogna con campagne orchestrate sui social – chi ha visto The Chair riconoscerà quanto successo al professor Elliot, in una scena pressoché indistinguibile dal reale – che poi si radicalizza nelle sue posizioni, diventa un personaggio, porta i suoi troll seriali a poter ragionevolmente dire ecco, vedete? Ce la siamo presi con un fascista. Finché il caso non finisce per essere parte di un gioco più grande, venendo sfruttato dalla destra radicale per coprire con una foglia di fico la sua totale, rabbiosa chiusura verso qualsiasi orientamento progressista.
Come venirne fuori? Boh, non saprei. E se lo sapessi forse sarei, che so, ministro dell’Università in Francia. Ma forse non lo saprei nemmeno in quel caso. Perché è un ginepraio. È complicato. È un discorso diventato quasi impossibile da fare senza scomuniche, accuse, false coscienze, malafede, ricatti morali, secondi fini e tutto il resto. Cercherei di rimanere sull’essenziale: no, esporre conversazioni più e meno private al pubblico ludibrio per dare del fascista al prossimo, specie con modalità così infamanti, moleste e foriere di conseguenze deleterie per la vita personale delle persone, non è un comportamento giusto e progressista. Sul resto, beh, parliamone.
Morte di JD, «bianca iperprivilegiata»
Ieri è morta Joan Didion, straordinaria e celeberrima autrice americana della corrente del cosiddetto New Journalism che per tre quarti di secolo, ha scritto il New York Times, «ha esplorato la cultura e il caos» negli Stati Uniti.
La prima versione di un articolo dedicatole dal Guardian (nello screenshot qua sopra), presto modificato in fretta e furia con una nota, le accostava la definizione di «overprivileged white woman». In molti sensi lo è stata: ricca, famosa, dotata di una sprezzatura commisurata al suo inarrivabile talento, Didion era certamente agli antipodi rispetto alla militanza politica resa mainstream dai social network nell’ultimo decennio. Ma nessuna persona sana di mente o lontana amante della letteratura ridurrebbe mai l’autrice de L’anno del pensiero magico e The White Album, o la sua influenza sulla cultura e sul pensiero americano, a uno spettro qui sterile e banale come quello del «privilegio».
Joan Didion, nella sua vita fatata e non abbastanza militante, ha perso una figlia e un compagno, ne ha scritto pagine immortali sul dolore e il senso di essere al mondo. Ha detto giustamente Helen Lewis dell’Atlantic che tic mentali come quello di cui sopra sono, in definitiva, «misoginia travestita da progressismo».
Altre news dal fronte
- Dopo il bailamme su J. K. Rowling e le sue posizioni considerate transfobiche (ne avevamo parlato nell’ultima puntata di questa newsletter), la lega americana del Quidditch (come fa uno sport inventato nel contesto di un’opera di fantasia a tema maghi volanti ad avere una sua lega? Buona domanda) ha deciso di cambiare nome alla sua disciplina, coprendosi più che vagamente di ridicolo;
- Le edizioni Tlon, che si occupano di filosofia e negli ultimi tempi si sono avvicinate anche editorialmente al mondo dell’attivismo inclusivo, hanno fatto parecchio incazzare la comunità asessuale. Il motivo risiede nella pubblicazione di un libro, I corpi astinenti, che la comunità ace ha tacciato di afobia e definito «problematico» per il modo in cui la rappresenta. Nei commenti del ricco shitstorm seguito al pacato post di Tlon per calmare le acque si descrivono i drammi di «una comunità marginalizzata, che già deve subire minority stress e microaggressioni continue», per colpa di «una società afobica»;
- Tutto il mondo è paese: anche oltreoceano una certa qual destra bacchettona prova a propagandare lo spauracchio di una tragica “guerra al Natale” e alle tradizioni. Fox News però ha avuto l’indiscusso merito (se non, ehm, l’ardire) di farlo a partire da... un albero di Natale incendiato da un folle. La storia raccontata dall’Economist.