Woke in miniatura


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Tra le tante cose di cui non so assolutamente nulla figura certamente Warhammer, «un wargame tridimensionale futuristico, prodotto dalla Games Workshop nel 1987» (grazie Wikipedia, sei sempre gentile con me). Ragione per cui scrivere questa puntata è stato particolarmente ostico, ma procediamo.

Warhammer, detto anche senza Wikipedia, è un gioco da tavolo di strategia ambientato in un lontano futuro distopico, con territori da conquistare e armate di soldati tridimensionali, ma è soprattutto un fenomeno culturale che unisce collezionismo, pittura, dimensione ludica, universi fantasy e tantissimi negozi a marchio Games Workshop. Negli anni ha attirato attorno a sé una community molto diffusa e dedicata, che di solito definiamo pigramente nerd, che permette all’azienda di fare a decent amount of money, per dirla come quelli là: nel 2023 ha registrato profitti per quasi 290 milioni di euro.

Perché stiamo parlando di caste di guerrieri in miniatura da dipingere su una newsletter che tratta di politically-presunto-correct e affini? Semplice: perché il mondo di Warhammer è stato squassato da un terremoto. Il motivo me l’ha spiegato il collega Lorenzo Fantoni, che invece di Warhammer sa molto (seguirlo su Instagram per credere):

Games Workshop ha messo un custodes donna, cioè un personaggio femminile in una “casta” di guerrieri finora considerati solo uomini.

Ecco, figurati se non c’era di mezzo una donna (classico humor che potrebbe finire scrinsciottato in una storia di qualche influencer pazzo, ma andiamo avanti). Scherzi a parte: la cosa pare così grave (...) da meritare un titolo strillato – e onestamente strepitoso – sul Daily Mail: «It’s Wokehammer!».

Risulta che Games Workshop abbia avuto l’incauta ma decisamente innocua pensata di inserire una figura femminile fra gli Adeptus Custodes, ovvero (cito) «i più grandi guerrieri del genere umano, semidei in lucenti armature di auramite che brandiscono le più micidiali e perfette armi dell’Imperium».

Il nome del pomo della discordia, parte della nuova edizione di Warhammer 40.000, è Calladyce Taurovalia Kesh: i fan duri e puri hanno vissuto la cosa come una sorta di tradimento dei Custodes, che secondo il sito specializzato Wargamer in quasi trent’anni di saga erano sempre stati maschi.

Sui social l’azienda produttrice si è difesa spiegando che «ci sono sempre stati Custodes femmina», ma non è stato abbastanza per placare l’onda d’urto dell’ennesima polemica di trincea su Twitter, o come si chiama adesso. Come riporta il Daily Mail, l’ex sviluppatore di World of Warcraft Mark Kern ha accusato Games Workshop di «cambiare genere ai personaggi per segnare punti woke».

Tantissimi fan si sono espressi in termini simili, qualcuno vendendo le sue statuine da collezione, oppure cancellando la sua iscrizione al servizio in abbonamento Warhammer+, per protestare contro la mancanza di rispetto mostrata verso la lore della comunità. I commentatori sono certi: Warhammer è diventato woke.

Ora: detto che io, per l’appunto, di questo mondo so meno di zero, e che tendenzialmente sarei d’accordo con questo tweet qui di seguito:

Dicevo, detto questo capisco anche che il senso di comunità e l’aderenza alle regole e alle prassi – specie nel caso di antropologie cosiddette nerd, per cui la socialità può risultare una dimensione molto complessa – siano fattori importanti in scene come quella di Warhammer: se chi ci gioca da anni si sente deluso dal suo passatempo preferito, chi sono io per dirgli che non dovrebbe esserlo?

Nel contempo, però, da osservatore di bisticci simili, non posso evitare di notare che il pattern del gone woke si ripete quasi sempre uguale a se stesso: un’azienda, un’istituzione, una produzione si macchia di una scelta “inclusiva” che scontenta alcuni fan e si presta alla polarizzazione; nascono le polemiche in vitro; arriva il Daily Mail; Trump ci fa un post su Truth; alla fine ne parla Piacenza sulla sua newsletter.

È successo con la «Sirenetta nera», per citare il primo caso che mi viene in mente, e succede ogniqualvolta i discorsi sulla rappresentazione si intersecano con fanbase online e meccanismi della viralità.

Quel che esce dal nastro trasportatore alla fine del macchinario è un mondo in cui la wokeness, da set di teorie e pratiche più e meno individuabili e criticabili, diventa uno specchietto per allodole con cui tradurre conflitti simbolici nel campo della cultura pop. In questa cornice tutto è woke, e ogni fatto diventa interpretabile attraverso le sue lenti: di certo Games Workshop voleva «segnare punti woke» aggiungendo personaggi femminili, anche se Warhammer 40.000 li ha già da tempo e la parità di genere non sembra così al di fuori del suo universo.

Continuiamo imperterriti a essere prigionieri – chi più e, per sua fortuna, chi meno – di riflessi pavloviani banalizzanti e cornici asfittiche che rendono ogni tema sociale la riproposizione pedissequa di frame da sbadiglio e catfight senz’arte né parte: c’è solo da sperare che fra 40mila anni un regno di valorosi guerrieri interstellari ristabilisca le dovute priorità.

Aspetta: ho detto «guerrieri», al maschile? Oh, cazzo.

Altre news dal fronte

  • Guerre culturali dalle parti di National Public Radio: il suo direttore degli ultimi 25 anni, Uri Berliner, si è dimesso dopo aver criticato in un saggio la presunta svolta liberal dell’emittente;
  • Il concetto di lived experience e i richiami alle vite vissute (da opporre alla fredda scienza) sono armi a doppio taglio, come diciamo spesso qui;
  • La più prestigiosa università d’Australia organizza un corso di matematica indigena, in cui «i numeri rivestono un’importanza secondaria»: mi dispiace solo che nessuno ci abbia pensato quand’ero al liceo.

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