Un wokismo di classe


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Dopo La nascita del modernismo italiano (Quodlibet) e Cultura di destra e società di massa (Nottetempo), incentrati sulla prima parte del Novecento, Mimmo Cangiano, docente di Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, con Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo) si sposta sulla contemporaneità della società occidentale e cerca di ricomporre un quadro d’insieme dei fenomeni culturali e sociali che stanno alla base di molte frizioni e tensioni di oggi.

Cangiano è evidentemente un comparatista e un teorico della letteratura per cui, come tale, si pone il problema dei rapporti che intercorrono tra i contesti di produzione e l’opera d’arte. In questo senso è interpretabile la linea secondo cui procede tutto il libro. Lungi dall’essere una mera analisi sociologica del fenomeno delle culture wars negli Usa, infatti, vengono posti una serie di problemi che riguardano la sovrastruttura attuale, ovvero l’ideologia culturale che si va affermando nella nostra contemporaneità.

Il dibattito sulle guerre culturali e il loro apparato simbolico sono da alcuni decenni al centro degli studi non solo di letteratura comparata negli Stati Uniti, ma più in generale negli insegnamenti di letteratura e di stampo umanistico prima nei campus d’oltreoceano e poi in quelli europei e italiani.

È evidente come il dibattito politico e culturale si stia concentrando sempre di più su questioni identitarie, antirazzismo e anti-sessismo. Inoltre, anche qui come già in America, a essere investito da questa querelle, dopo il settore disciplinare di americanistica e anglistica, è stato quello di letterature comparate e critica letteraria. Non è un caso che proprio l’Associazione di teoria e storia comparata della letteratura Compalit abbia dedicato nel 2021 il suo convegno annuale a temi come quelli della cancel culture e della cultural appropriation. In seno a questa emigrazione del dibattito dall’America del Nord al nostro paese nasce il libro di Cangiano.

L’autore però non si propone solo l’analisi dei fenomeni e la ricostruzione di un quadro d’insieme (in questo senso è estremamente interessante e lucido il terzo capitolo che cerca di ricostruire i rapporti tra post-strutturalismo, French Theory e Cultural Studies), ma resta ancorato a una chiave interpretativa da materialista storico.

La tesi proposta, quindi, sembra voler spiegare che rapporti intercorrono tra marxismo e guerre culturali, e se queste ultime possano essere davvero considerate parte di un più ampio fronte di lotta anticapitalista. La risposta, mai celata, è che lo sono solo nel momento in cui si accompagnano a una serie di lotte sociali.

Lo spostamento dei conflitti sul solo piano ideologico o simbolico (rappresentazione televisiva delle minoranze, inclusività del linguaggio, politiche a favore delle donne nelle grandi aziende, eccetera) fa in modo, infatti, che «la lotta sovrastrutturale tenda progressivamente a soppiantare ogni altro tipo di lotta».

La demolizione delle ineguaglianze all’interno della nostra società non può quindi risolversi sul piano culturale se questo non ha un effetto di ritorno sul piano materiale. L’autore mette in luce come le élite dominanti tendano, tramite le culture wars, a fare delle operazioni di vero e proprio occultamento della dimensione economica delle disuguaglianze.

Non sarà il lancio di una serie tv su Cleopatra in cui la regina d’Egitto viene presentata con tratti sub-sahariani a risolvere il gap economico tra la borghesia bianca e la stragrande maggioranza degli afroamericani che faticano a pagarsi le cure mediche nelle città statunitensi, così come non sarà la presenza sul palco dell’Ariston di un rapper proveniente dalle più disagiate periferie di Napoli, finanziato dalla stessa casa discografica di metà dei concorrenti in gara, a procurare agli stessi abitanti di quelle periferie un fondo pensionistico o un lavoro che gli consenta di vivere dignitosamente.

La perdita di quello che è, gramscianamente, il nesso dialettico tra cultura e prassi è davvero al centro dell’efficacia delle culture wars. La critica al capitale e ai suoi modelli ideologici diviene, come già riteneva Mark Fisher, un modo per rafforzare il capitale stesso che non viene più riformato dal suo interno attraverso una dialettica socialista, ma si autoalimenta tramite le stesse critiche.

Tuttavia Cangiano va oltre l’interpretazione di Fischer e mette in luce due errori nelle pratiche del culturalismo. La prima è l’assunto secondo cui il capitale sarebbe monologico, ovvero maschile, bianco, etero, cis, abilista e via discorrendo. Questa definizione, che pure passa per una base di verità, non contempla l’innata capacità di questa struttura economica di replicarsi. In virtù di questa replicabilità il capitale può farsi femmina, nera e queer e mettere a capo di un’importante azienda una donna lesbica afroamericana, ma continuare a pagare pochi centesimi un’altra donna queer in Pakistan per cucire delle scarpe da ginnastica tra i miasmi di colla tossica.

Il secondo problema evidenziato nel culturalismo è il cambio di ruolo, rispetto al marxismo tradizionale, della soggettività. La soggettività al centro delle cultural wars infatti vive ai margini della società e da questa posizione cerca di conquistarsi un ruolo simbolicamente più centrale.

Nel marxismo prevale, invece, una dialettica del servo-padrone per cui il padrone sfrutta il servo giocando sul plusvalore: ma la soggettività che sta al centro della struttura economica, per quanto oppressa, è proprio il servo che produce anche per il padrone, che sarebbe altrimenti incapace di provvedere a se stesso. Da ciò proviene la teorizzazione di tipi di lotta come lo sciopero, come anche la consapevolezza che il soggetto che vive una subalternità di classe è anche l’unico che può mandare avanti gli ingranaggi del capitale.

Senza una prospettiva di classe, le cultural wars non sono molto di più che volterriani principi di tolleranza estesi all’ennesima potenza. Ciò ne spiega la loro popolarità in luoghi come le università statunitensi ed europee, dove la giusta attenzione al linguaggio inclusivo convive con l’aziendalizzazione degli istituiti universitari, l’innalzamento delle rette e la dilagante precarizzazione che impedisce ai ricercatori di vivere dignitosamente del proprio lavoro. 

Il libro di Mimmo Cangiano si presenta come una scrittura lucida, leggera, intellettualmente onesta e attentissima a citare sempre le sue fonti. Offre, anche ai non esperti, uno strumento pratico per capire cosa succede nel mondo della cultura dell’Occidente. Mescolando in maniera consapevole elementi legati alla sua esperienza e un ricco apparato teorico, l’autore ricostruisce una realtà complessa: come quella di un Paese che elegge un presidente come Donald Trump, e poi tira giù le statue degli schiavisti mentre dà fuoco alle centrali di polizia. 

Altre news dal fronte

  • Vittime di spending review: il governo americano ha deciso di privarsi dell’Office of Diversity and Inclusion;
  • Simpatico giochino del Pentagono che immagina di mandare l’esercito contro i regazzini che protestano, eh eh eh;
  • È arrivata la Bibbia di Trump (ma di questo, per gli abbonati, parleremo meglio molto presto).

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