Come forse avrete letto [irony mode: ON], il famoso attore Will Smith è salito sul palco durante la cerimonia degli Oscar per colpire con un violento schiaffone Chris Rock, il comico che si era appena esibito in una battuta sull’alopecia della consorte di Smith, Jada Pinkett.
Cosa c’entra The Slap, com’è quasi subito stato ribattezzato, con le culture wars? Oh c’entra, c’entra, cari miei.
E Kate Manne, filosofa, non è stata l’unica ad applicare una filastrocca vagamente ispirata alla prospettiva intersezionale per offrire un commento edgy sull’accaduto, beninteso. Gli esempi “virali” si sprecano.
Una battuta su una persona affetta da alopecia: certamente abilismo da sanare con un ceffone in pieno volto.
🤔
Ok, hai capito. Ma a staccare la concorrenza è stato questo tweet della comica (bianca) Sofie Hagen.
Su Buzzfeed – e, per fortuna, su un altro piano rispetto alle cretinate prêt-à-porter di Twitter – Niela Orr si è focalizzata sullo «spettacolo razzializzato» del manrovescio dato da un nero a un altro nero, inquadrandolo nel «modo in cui l’espressione pubblica della rabbia dei neri attira l’attenzione degli americani» e scrivendo anche (corsivo suo):
The responses to the joke that claim Smith was defending his wife’s honor in a room full of white Hollywood establishment figures still center white people. Why should anyone really be bothered with what white people think about an exchange between three Black people?
La mia domanda è: nella miriade di commenti di questo tipo, si perde forse di vista che dire o suggerire che un uomo che schiaffeggia un altro uomo per una battuta sulla sua compagna è un problema che riguarda solo le persone nere è un filino – come dire – razzista, o comunque segregazionista? O che sostenere che non si può commentare ciò che una persona nera fa significa sottintendere che è così diversa da renderla inintelligibile agli occhi di un bianco? È un’epoca di grandi contraddizioni, questa, e che talvolta sembra aver fatto passi indietro senza accorgersene.
Un’altra contraddizione a cui ho pensato, durante questi giorni di editorialismo spicciolo sul ceffone degli Academy, è quella per cui secondo tanti Smith ha semplicemente fatto bene: leggevo un commentatore secondo cui la star premiata con l’Oscar «non ha fatto violenza, violenza è ben altro... [...] Le parole di Rock sono state molto più dolorose e orrende». Non è affatto stato il solo a pensarla così.
Ci vorrebbe un momento di riflessione collettiva su cosa vuol dire per noi violenza oggi: è un termine il cui significato è cambiato radicalmente negli ultimi anni, che viene spesso tirato in ballo a sproposito, o sfruttato per il suo portato di urgenza in contesti pressapochisti. Ma quando arriva la violenza, quella vera – quando in Europa cominciano a piovere bombe, quando un comico sul più prestigioso palcoscenico mondiale prende una pizza in faccia per una battuta – fatichiamo a riconoscerla, ci vediamo altro, ridimensioniamo l’accaduto, la allontaniamo da noi. Considera anche quest’altro tweet (poi eliminato dalla sua autrice):
Si postula un’equivalenza sostanziale tra una boutade (anche insensibile, come poteva essere quella di Rock sull’alopecia di Jada Pinkett) e un atto di violenza materiale, cioè di violenza vera e propria, come se fosse tutto intercambiabile e la colpa si potesse dividere equamente fra le parti coinvolte.
Pierre Bourdieu parlava di “violenza simbolica” in relazione a quelle imposizioni più e meno “occulte” di un certo gruppo sociale dominante in una società; anni dopo, Gayatri Chakravorty Spivak è tornato sul tema per rifinire una definizione analoga di “violenza epistemica“: riflessioni importanti, che hanno affinato il campo di indagine degli studi sociali.
Eppure, arrivati al 2022 e alla sua gran confusione informativa e mediatizzata, sembra che tutti questi concetti siano stati infilati frettolosamente in un frullatore, da cui è uscito che tutto è violenza – meno, forse, la violenza vera e propria.
Comunque, tornando sulla Terra: un comico è stato preso a schiaffi durante una sua esibizione. Questo è un problema non solo per il comico, ma per tutti quei comici che da oggi si troveranno su palchi molto meno celebri di quello degli Oscar, con una battuta da recitare che verosimilmente offenderà qualcuno nel pubblico.
«Non puoi andare a colpire sul volto una persona davanti al mondo e poi tornare al business as usual», ha detto bene stavolta Joe Rogan, spiegando che quell’Oscar a Will Smith non avrebbero proprio dovuto darlo. E mi pare il minimo.
This guy
Il cretino (anzi: «l'anello di congiunzione tra una testa e un cazzo», per citare la sua bio su Twitter; e chi sono io per obiettare) qui sopra è un comico che il prossimo 12 aprile avrebbe dovuto esibirsi allo Zelig di viale Monza a Milano, ma per il grande sollievo dei frequentatori del locale non ci sarà: il cabaret ha annunciato di averlo «escluso dalla programmazione» in seguito al suo tweet.
Il riferimento della – ehm – battuta di Diomede è il caso di Carol Maltesi, la giovane donna uccisa nel milanese dal suo vicino di casa Davide Fontana, che ne aveva poi orribilmente smembrato e nascosto il cadavere. Maltesi, che produceva contenuti per adulti, nelle prime ore della trattazione del caso da parte dei media è stata oggetto di alcuni articoli tra il morboso e il pruriginoso (il Corriere della Sera l’ha persino accostata a una guida su come usare Onlyfans, nientemeno). La situazione era già piuttosto penosa e intollerabile, insomma.
Poi è arrivato l’anello di congiunzione. E per quanto nessuno al mondo (si segnala un singolo elettrauto della provincia di Rovigo, che tuttavia non è su Twitter) abbia gridato alla “cancel culture” difendendolo, l’ordine sacerdotale della lotta alla lotta alla cancel culture – non è un refuso, leggi bene – si è prodotto in una serie di commenti che reiteravano l’insensatezza dei discorsi intorno alle cosiddette cancellazioni.
Io, che ormai ovviamente sono un’autorità in materia (leggilo in tono ironico, ti prego), sono entrato nella sala Var della cancel culture e ho scoperto che, con quel fenomeno, questa vicenda non ha nulla da spartire: sì, Diomede ha scritto la sua – ehm – battuta su Twitter e sì, il suo datore di lavoro si è pubblicamente dissociato da essa, facendogli perdere un impiego.
Ma ci dev’essere un malinteso di fondo: si può discutere di “cancellazioni" quando le cause scatenanti sono almeno minimamente controverse, opache, fraintendibili; quando a causare il danno è in parte o in tutto la maionese impazzita di algoritmi che giocano con la psiche umana e solleticano l’ego del segnalatore, generando una reazione asimmetrica a colpe non gravi o assenti; quando si prendono fischi per fiaschi, decontestualizzando un messaggio fino a renderlo ciò che non era; quando la scelta di un’azienda o un ente di licenziare un malcapitato riguarda fatti personali lontani nel tempo, o mai accertati, o si accoda a pressioni socialmediali in ossequio allo spirito di corpo.
Ti risulta che sia questo il caso? Beh, io direi proprio di no: le colpe di questo tizio sono chiare e sotto la luce del sole. “Libertà di espressione" non significa libertà di offendere per il gusto di offendere senza patire conseguenze di nessun genere, o addirittura di vilipendiare cadaveri perché “hey, sono un comico, una volta sono stato a un open mic e dicevano pressapoco così”.
Il dibattito sulle cancellazioni non può prescindere dal tracciare una linea tra ciò che si può fare o dire con la ragionevole aspettativa di non subirne conseguenze spiacevoli, e ciò che non si può fare o dire non perché c'è una polizia pronta a entrare in azione, ma perché banalmente significa perdere la credibilità e il rispetto del consesso sociale (o lavorativo, come in questo caso). Quando ciò che normalmente starebbe al di qua della linea finisce al di là, esiste un problema di cui è bene discutere: se invece ciò che si trova al di là continua a essere al di là, beh, problem is not (la linea non sarà sempre facilissima da individuare, certo, ma non è di sicuro il caso del Diomedegate).
Per il resto, il comico è un mestiere, e come tutti i mestieri devi saperlo fare. Quoto Alice Olivieri.
Altre news dal fronte
- Piccolo post scriptum/appendice da prima: questa è una grande verità, ahinoi.
- Non ho nulla contro la rimozione delle statue “controverse” e non mi sembra un grande problema in generale; è però un problema quando segnala un approccio superficiale e dannoso da “first world progressives”, prendendo granchi colossali: il consiglio comunale di Glasgow, in Scozia, ha commissionato una valutazione delle statue della città, valutando la rimozione di quella di David Livingstone, esploratore e attivista per l’abolizione della schiavitù dell’Ottocento. Perché? Perché da bambino Livingstone aveva lavorato al cotonificio Blantyre, che usava cotone proveniente dalla tratta degli schiavi delle Indie. Peccato che Livingstone all’epoca fosse niente altro che una vittima di sfruttamento minorile, che durante il resto della sua vita abbia lottato (quasi da solo) per l’abolizione dello schiavismo e che per questo in Africa venga considerato un eroe della libertà;
- La storia del “Don’t Say Gay Bill” della Florida, la legge repubblicana che restringe la libertà di trattazione di tematiche Lgbtq+ nelle classi delle scuole elementari dello stato: è iniziato tutto con la denuncia di due genitori, due anni fa. Una lettura utile per capire come si è arrivati a un caso nazionale;
- Questo tweet (mi è venuta in mente Kelly di The Office, non so perché – o forse sì).