È un’epoca, questa, in cui eventi apparentemente di poco conto acquistano un’importanza centrale, come se fossero diorami che riassumono le tensioni in atto nella società intera: in questo senso, ciò che è accaduto nella redazione del Washington Post questa settimana è un topolino che ha partorito una montagna.
I fatti, scriverebbero i cronisti bravi, dicono che il 3 giugno David Weigel, quarantenne giornalista che copre la politica interna per il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, ha ritwittato una battuta. Questa:
In seguito, Weigel spiegherà di averla «trovata divertente» lì per lì, ma poi di aver pensato che, «eh», magari non lo era poi troppo, e di aver cancellato la condivisione dopo pochi minuti. Il reporter, che su Twitter ha 600mila follower, ha quindi chiesto scusa al suo pubblico:
Intanto Felicia Sonmez, che ha 39 anni e fino a ieri si è occupata, anche lei, di politica nazionale al Washington Post (e ad aprile ha co-firmato il suo ultimo articolo con Weigel), ha condiviso uno screenshot del retweet del collega prima che venisse cancellato, condendolo con una chiosa sarcastica e indignata: «È fantastico lavorare per un giornale che permette questi retweet!».
Il tweet di Sonmez attira decine di migliaia di like, finisce ai quattro angoli del Twitter nordamericano e la questione esplode, letteralmente: si inizia a dire che un giornalista appartenente a una minoranza al posto di Weigel «non l’avrebbe fatta franca», ci si chiede se il collega di Sonmez riceverà «una email dal suo capo», com’era successo alla reporter quando aveva dato pubblicamente dello stupratore alla star dell’Nba Kobe Bryant, nel giorno della sua morte; si impone a Weigel di scegliere: non sa che le sue azioni possono causare «harm», danno, oppure ha appena scoperto che le persone Lgbtq+ e i bipolari «hanno dei sentimenti»?; si nota malignamente che il reporter è già passato a twittare d’altro, «like all is normal». Ma di normale, da qui in poi, non ci sarebbe stato più niente.
Dal primo, variamente condivisibile intervento sulla questione, in pochi giorni Felicia Sonmez ha dedicato alla vicenda un numero di tweet che supera di gran lunga il centinaio, con toni sempre più incendiari e chiamate in correità a raggio sempre più ampio: ha parlato di «alcuni giornalisti che si sentono autorizzati a twittare cose razziste/sessiste senza timore di ripercussioni»; ha definito il suo ambiente di lavoro «non sicuro» per le donne; ha esposto alle reazioni del suo pubblico iper-mobilitato diversi colleghi del Washington Post, a partire dal latinoamericano Jose Del Real, che le aveva chiesto di riflettere sulle sue «molestie pubbliche ripetute e mirate nei confronti di un collega».
Di fronte a questi messaggi Sonmez – che nel frattempo aveva macinato altre dozzine di tweet e retweet sulla cultura misogina che permea il suo giornale e le oppressioni legittimate dai suoi colleghi – spiega con un nuovo thread virale che «un collega del Post» le ha dimostrato che «quando le donne si difendono da sole, alcuni rispondono con ulteriore vetriolo».
Nelle risposte a Del Real, Sonmez chiama in causa la direttrice del Washington Post Sally Buzbee, la prima donna al vertice del Post, che dopo poche ore dirama internamente un invito alla risoluzione pacifica delle controversie sorte nella redazione del prestigioso quotidiano, sperando di porre fine all’insolito spettacolo in mondovisione. Felicia Sonmez è però ormai alla testa di un esercito, e la sua personale denazificazione non può finire senza prima aver marciato sulla capitale: condivide sul suo profilo l’intervento della sua direttrice e lo definisce «foraggio per nuove molestie». Poi, ripostando all’impazzata il thread dedicato al collega Del Real, tira ancora per la giacchetta la direzione, chiedendosi perché non abbia preso provvedimenti per i tweet di un dipendente che metteva in dubbio una lotta contro il sessismo («È questo ciò che siamo?»). Il 7 giugno Sonmez riportava la testimonianza anonima di «una collega donna» che aveva «già segnalato a un responsabile un tweet di Weigel», ricevendo in cambio un’alzata di spalle.
Ogni descrizione delle proporzioni raggiunte da questo caso è destinata ad essere difettosa, se non eufemistica: ha portato una storica testata a dilaniarsi in accuse e contro-accuse sempre più lunari, fatto implorare una sua giornalista (donna) di «smetterla» a una collega, portato un altro membro dello staff del Post a contare quanti uomini avevano messo like a quali tweet e disseminato l’etere di discorsi forzati e confusi su vittime e carnefici.
Intanto, il 6 giugno si è venuto a sapere che David Weigel è stato sospeso senza paga dal Washington Post, mentre Sonmez il 9 giugno è stata licenziata, scrive il New York Times, «per cattiva condotta che include insubordinazione, aver calunniato i colleghi online e aver violato gli standard del Post sulla collegialità e l’inclusività del luogo di lavoro». Di lei sentiremo ancora parlare, anzi se ne parlerà più di prima: diventerà una martire dell’attivismo online, e già ora si inizia a dedicarle idiozie quali «parlare di aggressione sessuale ti farà perdere la carriera».
Il sexist joke di Weigel (anzi, scusa: ritwittato da Weigel per pochi minuti) è diventato il lasciapassare per ogni tipo di redde rationem interno al giornale. All’email collettiva della direttrice Buzbee ha risposto (mantenendo l’intera redazione in copia) anche la video tecnica Breanna Muir, riportando a galla un refuso in un tweet del suo capo, il responsabile della sezione video del Post Micah Gelman, che a marzo l’aveva citata in un tweet di ringraziamenti collettivi usando, per sbaglio, il nome «Breanna Taylor», quello della donna nera assassinata dalla polizia nel 2020 (Muir si era detta «umiliata» e aveva pubblicamente accusato Gelman già allora). «Se il Washington Post è impegnato a creare un ambiente inclusivo e rispettoso, privo di molestie, qualcuno mi può aiutare a comprendere i tweet e retweet di Micah Gelman e David Weigel?», ha scritto la donna via email.
«Respect and kindness», «rispetto e gentilezza» era l’oggetto della circolare inviata dalla direttrice del Washington Post, ed è un buon punto da cui partire: cosa sono oggi il rispetto e la gentilezza? Avendo seguito la vicenda in tempo reale, per giorni, parlo da testimone: ho visto una battuta greve, migliore di molte di quelle che circolano su Twitter, peggiore di quelle che dovrebbe permettersi un personaggio pubblico, ma in definitiva non differente da ciò che va ancora in onda a qualsiasi ora di qualsiasi giorno su qualsiasi media. Sono contenuti di cui il mondo farebbe volentieri a meno. Ma in sé, la battuta ritwittata da Weigel è innocua. Innocua.
Documentare un «danno» procurato da una boutade idiota che sembra uscita da un gruppo WhatsApp sarebbe difficile di per sé, ma nel caso specifico si è parlato incessantemente, per una settimana intera, di come quel gioco di parole abbia generato un ambiente di lavoro pericoloso per le donne, legittimato le molestie sessuali (se non addirittura lo stupro) anche al di fuori di esso e insolentito tutte le vittime di sessismo, mentre il WaPo ha «fatto scudo a due uomini».
Magari il Washington Post, fiore all’occhiello del settore più attento all’inclusione del paese più attento all’inclusione nel momento storico più attento all’inclusione di sempre, «tossico» lo è davvero: noi, da qui, non possiamo dirlo con certezza (anche se possiamo leggere le dozzine di testimonianze antitetiche di altri dipendenti). Però la facilità con cui così tante persone sono arrivate a decretarlo sulla base di un retweet inopportuno è assurda. Felicia Sonmez non è una vittima. «Una vittima» è chi subisce un sopruso che gli o le impedisce di vivere una vita equa e uguale, non chi è offeso da un gioco di parole – o chi ci impernia una campagna martellante e malevola. Sonmez a meno di quarant’anni ha una carriera d’élite nel mondo fatato dei grandi media americani. Se il concetto di «vittima» si dilata fino a comprenderla in quanto ferita da una battuta a scomparsa, allora è un concetto che non significa più molto.
Quel che ha scritto Sonmez ha ottenuto un’eco immensa e spendibile; la sua presa di posizione reiterata e “viralizzata” è diventata il tema del giorno (e poi dei giorni), e lei si è messa a capo di un ampio gruppo di profili che hanno incalzato (diciamo) con veemenza chiunque abbia provato a obiettare sull’utilità di un polverone del genere, donna o uomo che fosse. Ho letto infinite varianti di: quindi stai dicendo che le donne non devono far sentire la propria voce contro le molestie?. I ricatti morali funzionano così: spostando il punto della discussione. Quando qualcuno – il collega di origine messicana Real – ha fatto notare a Sonmez ciò che era sotto la luce del sole, cioè che quel che stava facendo non aveva da parecchio più alcun legame col rispetto delle donne e l’attivismo per le buone cause, lei ha raddoppiato gli sforzi per direzionare la Twitter mob contro di lui: se fossi un pm direi che “non poteva non sapere” quel che stava facendo.
All’inizio la vicenda ha assunto i contorni del ricatto anche di fronte al datore di lavoro: David Weigel non è stato sospeso senza paga per aver infranto le norme dei valori cari al Washington Post, ma perché la direzione ha dovuto cedere alla marea montante di cui ribolliva Twitter. E solo l’aver passato qualsiasi limite immaginabile da parte di Sonmez l’ha portata, in seguito, ad agire anche sul suo caso. Di joke sessisti come quello che ha condiviso il suo ex collega ne esistono diversi sulla piattaforma, e sono tutti diffusi: ad esempio il meme sul rapporto tra uomini e psicoterapia “men will rather [...] than go to therapy”. La stereotipizzazione dei sessi è un topos ironico dalla notte dei tempi: noi contro di voi, bambini e bambine, bulli e pupe. Possiamo farne a meno, ma sono pronto a scommettere che il gioco di parole sulle donne bipolari là fuori, in quella cosa che una volta si chiamava mondo reale, non ha spostato di un centimetro la vera oppressione subita ogni giorno da donne vere.
La divisione a squadre dei professionisti dell’antisessismo è una costruzione strumentale: tanto per dire, la cosa più interessante sull’accaduto l’ha scritta una donna, la ricercatrice Natalie Shure, che ringrazio per avermi salvato la salute mentale questa settimana.
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- Una brutta pagina di giornalismo italiano, tra le altre cose, quella che ha riguardato la morte di Camilla Bertolotti, donna transessuale uccisa a Marinella di Sarzana, al confine tra Liguria e Toscana: il Corriere della Sera l’ha definita «una trans ufficialmente parrucchiera»; l’Ansa direttamente «il transessuale Carlo Bertolotti», usando il suo nome precedente. Tendo a imputare cose di questo genere all’assoluta sciatteria che permea pressoché ogni redazione di quotidiano italiano, specie sul web, ma quest’ultima non può essere una scusante: imparate un minimo di rispetto, almeno nella cronaca nera. Che ci vuole?;
- Wired Usa ha abdicato alla sua professionalità scrivendo in un articolo – poi faticosamente aggiornato – che Substack, la piattaforma di newsletter che attira decine di milioni di letture ogni mese, «recluta attivamente e paga estremisti». Il motivo? Probabilmente perché alcune newsletter sono tenute da, beh, persone moderate e persone di destra, come (ma questo lo dico io: nell’articolo non è citato) l’attivista anti-transgender irlandese Graham Linehan. Lulu Cheng Meservey, che è la portavoce di Substack, ha dedicato alla vicenda un thread di cui questo sopra mi pare il messaggio più importante: se le critiche delle persone usano termini sbagliati pazienza, ma se lo fanno testate stimate, beh, è un problema diverso.
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