Furto di Natale con destrezza

Quando abbiamo smesso di capire il mondo? È il titolo di un bel libro dello scrittore cileno Benjamín Labatut edito da Adelphi, perfetto per parlare del presente: in nessun altro periodo della storia recente ci siamo trovati di fronte un sistema di segni, codici e sensibilità sociali così messo in crisi, polarizzato e ostaggio di scontri sempre più arcani e irrisolvibili.

Culture Wars ogni venerdì parlerà di casi in cui queste dinamiche agiscono e riplasmano il mondo, in Italia e all’estero. Non userà espressioni-richiamo come «dittatura del politicamente corretto» o, quando possibile, «cancel culture», né qualsiasi cosa che banalizzi un discorso importante e che è ora di fare insieme. Questa è la prima puntata.


“Sì, pronto? Vorrei denunciare il furto del Natale”

Succedono cose, in questo mondo: succede, ad esempio, che la commissaria Ue all’Uguaglianza Helena Dalli ritiri un innocuo documento interno per la comunicazione perché la destra italiana ci ha visto una censura del Natale ed è montata su tutte le furie.

In un articolo firmato sul Giornale da Francesco Giubilei, le nuove linee guida “inclusive” proposte dall’Unione Europea in una circolare per i suoi dipendenti sono state presentate come una sorta di complotto anti-occidentale.

Vediamola, intanto, questa circolare:

La circolare

In buona sostanza, la Commissione Europea dà consigli di buonsenso: caro corpo diplomatico, non augurare buon Natale all’ayatollah: potremmo fare figure di merda. O anche: crea un po’ di diversità negli esempi che usi, altrimenti può sembrare che tu stia parlando a una parrocchia di ottuagenari di Arluno (MI).

Ma Giubilei non l’ha vista in questo modo, anzi: ha scritto che «è evidente che dietro la ridefinizione del linguaggio si celi la volontà di cambiare la società europea, le nostre usanze e tradizioni». Ma anche fosse «evidente» – cosa che a me, in tutta sincerità, non sembra – il nocciolo della questione è che la società europea, le usanze e le tradizioni stanno già cambiando, com’è normale e sano che sia: io non mi sognerei mai di seguire e replicare in toto le tradizioni della società in cui sono nati e cresciuti i miei genitori, così come loro non l’hanno fatto coi loro genitori. La società è in cambiamento per definizione: si può ragionare sul come cambia, semmai. Certo, per farlo occorrerebbe ragionare, appunto, senza buttarla in caciara.

La polemica sull’Europa che «cancella il Natale» (per citare ancora Giubilei, poi ripreso dai più grandi giornali, con Francesco Merlo che su Repubblica se la prende addirittura con «la sinistra che abbandona il Natale»), per cortesia, risparmiamocela.

Il resto di Colombo

Il 23 novembre l’account Twitter della Women's March, l’organizzazione che a gennaio del 2017 ha organizzato la protesta più partecipata della storia americana contro Donald Trump, si è scusata pubblicamente per aver inviato ai suoi simpatizzanti un’email con una richiesta di donazione di 14 dollari e 92 centesimi, la cifra media che aveva raccolto nella settimana precedente. Il suo tweet dice: «È stata una svista da parte nostra non collegarla a un anno di colonizzazione, conquista e genocidio per gli indigeni, soprattutto prima del Ringraziamento» (molti nativi americani non festeggiano Thanksgiving, in quanto data simbolica dell’inizio della sottrazione delle loro terre). Il 1492 di Cristoforo Colombo.

È semplice deridere un’uscita del genere, e forse nemmeno del tutto sbagliato: davvero un’influente organizzazione come Women's March ha chiesto scusa per una cifra casuale finita in un’email? Eppure è successo, e se è successo significa che qualcuno si è lamentato. E se qualcuno si è lamentato, significa che l’ha percepito come un problema.

Il punto semmai, allora, diventa: quali sono i potenziali problemi – e quali le insidie, quali i caratteri controproducenti – di una società in cui potenzialmente qualsiasi cosa può offendere una sensibilità e generare fuoco incrociato di accuse e passi indietro? E se i nativi hanno, com’è ovvio, tutto il diritto di far valere il loro punto di vista, non è meglio concentrarsi su una sintesi politica, cioè condivisa e collettiva dello sterminio di cui sono stati vittime, invece che badare ai centesimi?

Letture pericolose

Dice l’American Library Association (Ala), la più grande associazione libraria degli Stati Uniti, che l’ondata di tentate censure di libri a tema Lgbt e razzismo nelle scuole americane ha subìto un aumento vertiginoso. «I social media stanno amplificando i ricorsi locali, che stanno diventando virali», ha commentato la direttrice di Ala Deborah Caldwell-Stone.

Qui gli aspetti da notare sono (almeno) due: spesso si parla di social justice warriors e sinistra woke, per indicare il fenomeno relativamente nuovo di gogne online motivate da visioni del mondo inclusive. È un tema, ma non va dimenticato che il problema a monte è bipartisan: la destra usa le tentate gogne, censure ed esposizioni dei suoi nemici quanto – se non più – della sinistra. La questione, si direbbe oggi, è “sistemica”.

E lo è anche, anzi soprattutto per via dei social citati da Caldwell-Stone: macchine pensate per farci litigare, per premiare l'engagement a tutti i costi, per sfavorire l’approfondimento e allontanare la moderazione.

Quella chiosa secondo cui Twitter avrebbe dato voce agli ultimi, passando finalmente di mano il metaforico microfono, poteva andar bene quando quelle piattaforme sembravano ancora una sorta di Terra promessa. Era dieci anni fa: poi c’è stato Donald Trump, uno che il microfono ce l'aveva già in mano da parecchio tempo, ma grazie (anche) alla disinformazione sui social è diventato presidente degli Stati Uniti.

Stare giù con Marra

La cultura cosiddetta pop di questo Paese mi ha a lungo fatto tirare lunghi sospiri, e non di sollievo. Per fortuna ogni tanto escono cose che mi fanno ricredere: una delle ultime è Noi, loro, gli altri, l’album di Marracash uscito pochi giorni fa. C’è una canzone, in particolare, che esprime bene – con tutti i limiti obbligati dal genere e dal mezzo, ovviamente – la mia prospettiva: è Cosplayer, la trovate qui sopra.

Finisce dicendo:

Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi
O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere
Non possiamo ancora essere poveri
Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?
Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L'abbiamo frammentata
Noi, loro e gli altri

È una critica dell’approccio di una certa nicchia di attivismo che, oltre a Marracash, hanno fatto propria anche diversi politologi di sinistra e di destra, e che personalmente condivido: il primo errore delle lotte per i diritti civili del 2021 è dividerle meticolosamente per appartenenze a tenuta stagna, illudendosi che categorie come il privilegio non dipendano anzitutto dal contesto sociale ed economico, dalle disparità di classe e dalla provenienza, ma siano in qualche modo da legare ai marker di identità: maschio, bianco, eterosessuale, cisgender, abile.

La parte di verità, in questa prospettiva, è che ovviamente in Italia un maschio, bianco, eterosessuale, cisgender e abile avrà maggiori possibilità di raggiungere una posizione sociale comoda e pacificata. Ma l’insieme individuato dalle categorie intersezionali, quando finiscono a ragionare per sommatorie, è così ampio e vago – specie alle nostre latitudini, dove il 90% della popolazione è bianca – che non considera l’infinità di situazioni di disagio che ricomprende, alienandosi peraltro le simpatie di molti suoi appartenenti.

Piuttosto che dividere ossessivamente il mondo in identità più e meno oppresse, con posizioni reciproche da calcolare e codici in perenne mutamento, faremmo bene a riappropriarci della nostra identità collettiva: quella di persone che hanno il diritto, tutte, a una vita tranquilla e a un accesso equo alle risorse e al lavoro, a prescindere da dove siamo nati, di che colore abbiamo la pelle e per chi proviamo attrazione sessuale. Questa, almeno, è la prospettiva di chi scrive, maschio cis-etero cresciuto in periferia.

Altre news dal fronte

  • La scrittrice italo-somala Igiaba Scego ha criticato la rimozione della statua di Thomas Jefferson dalla New York City Hall per i suoi legami con lo schiavismo. L’intervento di Scego, per quanto mi riguarda, è un capolavoro di onestà intellettuale e capacità di rapportarsi con la storia in modo tridimensionale e maturo. La scrittrice sostiene che era meglio risignificare la statua, avviare un dibattito sull’ambivalenza dei padri fondatori, coinvolgere la cittadinanza. Chapeau;
  • La giornalista Rai Cinzia Fiorato, dopo l’orribile caso di Greta Beccaglia, la giornalista molestata in diretta tv, ha scritto un lungo post su Facebook per raccontare il clima di molestie e sessismo imperante dei suoi trent’anni in Rai. I punti interessanti sono tantissimi: a me ha colpito anche quel «non c'è machismo più feroce del machismo di una donna»;
  • Il Wta, massimo organismo del tennis mondiale, ha scelto di sospendere tutti i suoi tornei nei territori cinesi o controllati dalla Cina, rifiutando la censura imposta da Pechino al caso di aggressione sessuale sollevato dalla tennista Peng Shuai, che aveva accusato il vicepremier cinese Zhang Gaoli, e da allora ci sono seri dubbi sulle sue condizioni.
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