Cambiare il mondo senza Twitter


Il reporter esperto di cultura internet Ryan Broderick ha dedicato l’ultima puntata della sua newsletter, Garbage Day, alla conquista di Twitter di Elon Musk. Nel suo articolo, una lunga disamina di quelli che l’autore vede come i meriti della piattaforma nell’aver generato, più di ogni altra, un «global social internet», Broderick arriva al centro del suo ragionamento scrivendo questo paragrafo:

La narrazione in questo momento è che l'egomania di Musk lo ha spinto ad acquistare e inevitabilmente rovinare Twitter perché sperava di trasformarlo in X, il suo clone totalitario di una «app per tutto» à la WeChat. Ma ce n’è un’altra, più semplice. Un uomo cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, la cui famiglia possedeva una miniera di diamanti [...] ha comprato un’app costruita da attivisti e afroamericani, a cui il Sud globale riconosce il ruolo di prezioso strumento democratico, e che è utilizzata dai giornalisti di tutto il mondo come fonte di informazioni libera e aperta, e ha cercato di trasformarla nel suo country club personale.

Stimo l’autore di queste righe, e sono stato iscritto alla sua newsletter per anni, però questa uscita mi ha fatto alzare un sopracciglio.

Non perché la conclusione del discorso sia sbagliata, anzi: Musk, per quanto si è visto fin qui, vuole davvero rendere Twitter la sua stanza dei balocchi, dove può licenziare in tronco con un’email chi lo critica, per giunta riuscendo a rimanere serio mentre invoca la «libertà di espressione». Ed è probabile che la sua mentalità possa essere accostata a quella di un «colonialista», per citare ancora Broderick, anche se a me sembra piuttosto il prodotto deteriore di un capitalismo iperlibertario che si è sviluppato nel luogo più «anticoloniale» del mondo: la Silicon Valley.

A farmi storcere il naso, semmai, è la resa di Twitter che esce dalla sua invettiva: un luogo con le sue pecche, certo, ma fondamentale per l’attivismo e i diritti delle minoranze. È l’ennesima riproposizione di una domanda che sembra già vecchia come il mondo, ma ha soltanto un decennio: i social media sono adatti all’attivismo?

La questione è complicata: dovendola riassumere, si può dire che chi risponde più convintamente “sì” è convinto che le piattaforme abbiano saputo organizzare efficacemente le voci di minoranze e categorie oppresse, ottenendo risultati tangibili che hanno migliorato la vita delle persone, mentre chi propende per il “no” è più propenso a ritenere che gli hashtag e i trending topic non siano una forma efficace di lotta politica.

E quindi, “sì” oppure “no”? Di certo c'è che il social dell’uccellino blu è stato – ed è ancora, in parte – la casa del Black Twitter, un’unione informale di persone di origine afroamericana che negli anni ha usato la piattaforma per discutere e diffondere temi di interesse per la popolazione nera (qui, en passant, si ritiene sia nata la pratica primigenia del call out, cioè la denuncia pubblica sul web dei casi di razzismo e discriminazioni, quella che nel 2014 ha portato l’America a parlare dell’assassinio di Mike Brown a Ferguson, in Missouri, e ha creato la base per movimenti di innegabile popolarità come Black Lives Matter).

Meredith Clark, una ricercatrice e studiosa del Black Twitter secondo cui la piattaforma digitale garantisce una forma di attivismo efficace, ha recentemente detto che nelle comunità nere che frequenta molti stanno lasciando Twitter, ma altri sono decisi a rimanere.

Vedo persone che dicono, no, rimaniamo. Puntiamo i piedi. Siamo la storia di questa piattaforma. Abbiamo contribuito così tanto, l’abbiamo resa preziosa nel modo in cui lo è oggi. L'abbiamo resa una risorsa. Quindi no, non andremo da nessuna parte.

È indubbio, peraltro, che anche in altri casi celebri l’attivismo sui social ha avuto effetti concreti: il più citato è quello delle Primavere Arabe del 2010-11, dove Twitter ha giocato un ruolo formidabile da strumento di organizzazione delle rivolte, ma ci sono anche il #MeToo e, in misura minore, l’organizzazione della Women’s March, la grande manifestazione in risposta all’Inauguration di Donald Trump, entrambi risalenti al 2017.

In un certo senso e determinate incarnazioni, quindi, Twitter è stato davvero un centro di attivismo. Ma siamo sicuri che sia stato l’attivismo a «costruirlo» e renderlo ciò che è oggi, come suggerisce Broderick? Scostando la patina di engagement socialmediale e gli annessi cicli mediatici, i contorni si fanno più sfumati: il #MeToo, come movimento, è nato un decennio prima della sua popolarizzazione algoritmica del 2017, e per alcuni commentatori non ha dato il giusto spazio alla sua fondatrice originale, l’afroamericana Tarana Burke, mettendo sul piedistallo anzitutto le esperienze di un gruppo ristretto di attrici bianche di Hollywood; le Primavere Arabe dieci anni dopo sono state cancellate dai ritorni all’autoritarismo dei Paesi dove erano fiorite; la Women’s March, oggi, offre sui suoi profili più che altro occasioni di mesto ludibrio.

Se l’attivismo ha «costruito» Twitter, deve aver seguito un progetto bizzarro: la firma dell’Atlantic Ian Bogost ha sottolineato come i social media nella loro forma odierna – di cui Twitter è l’indiscusso capostipite – forniscono all’utenza l’esatto opposto dei requisiti di base per una comunicazione e persuasione sociale propriamente dette, l’architrave su cui poggia qualsiasi lotta politica. Si predica solo ai convertiti, mentre ineffabili algoritmi ci portano a cercare l’engagement a qualsiasi costo, a discapito dell’ascolto reciproco.

Dalla richiesta di recensire ogni prodotto che acquisti alla convinzione che ogni tuo tweet o immagine su Instagram meriti “mi piace”, commenti o follower, i social media hanno prodotto una resa assolutamente instabile e sociopatica della socialità umana.

Ma più ancora, a convincermi del fatto che i social media non sono fatti a immagine e somiglianza dei movimenti c’è il loro grado intrinseco di rappresentatività. Spesso si dice che Twitter ha permesso di «passare il microfono» a segmenti della società marginalizzati e oppressi: ma questi ultimi sono davvero su Twitter a indirizzare le conversazioni?

È il nocciolo di un argomento affascinante presentato dal filosofo nigeriano-americano Olúfẹ́mi O. Táíwò. In buona sostanza, gli appartenenti a una minoranza che sono più attivi su Twitter sono inadatti a rappresentarla in toto.

«Da un punto di vista sociale, i “più colpiti” dalle ingiustizie sociali che associamo a identità politicamente rilevanti come genere, classe, razza e nazionalità hanno una probabilità sproporzionata di trovarsi in carcere e sottoccupati, o di far parte del 44% della popolazione mondiale senza accesso a Internet – e quindi tanto di essere lasciati fuori dalle stanze del potere, quanto di venire ignorati dalle persone che le abitano», ha scritto Taiwo in un suo interessante saggio. Il solo far parte di un gruppo di pressione attivo su Twitter, in questo senso, porrebbe i portavoce in una dimensione intimamente diversa da quella di chi vorrebbero rappresentare.

Non solo: un rilevamento dell’ente statistico americano per eccellenza, il Pew Research, nel 2019 ha trovato che l’utenza dell’uccellino blu è statisticamente molto più giovane, benestante e istruita della popolazione statunitense più ampia. Il che non è certo una colpa, ma costringe i Twitter-addicted a muoversi in una realtà parallela fatta di bolle non comunicanti e polarizzanti, che distorcono ciò che dicono e giocano con la loro psiche. E con che coraggio si può pensare seriamente che un meccanismo del genere sia la quintessenza dell’«attivismo», tanto da renderlo un suo sinonimo?

Altre news dal fronte

  • Il New York Times ha pubblicato un nuovo capitolo della sua serie di inchieste su uno dei temi al centro del dibattito socio-culturale degli Stati Uniti: i farmaci bloccanti della pubertà per minori transgender e i loro effetti a lungo termine;
  • Un posto perfetto per l’attivismo, dicevamo.

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