Il giornalista Matt Taibbi ha pubblicato su Twitter la prima parte dei «Twitter Files», una serie di scambi di messaggi interni all’azienda risalenti al 2020 che mostrano l’iter decisionale che ha portato all’oscuramento sulla piattaforma di un articolo del New York Post sul figlio di Joe Biden. Il nuovo dominus della società Elon Musk ha reclamizzato l’evento come la pistola fumante dei problemi della precedente gestione di Twitter, mentre molti suoi critici, per converso, ci hanno visto niente altro che la normale amministrazione della content moderation.
I fatti: a tre settimane dalle elezioni presidenziali di novembre 2020, la testata turbo-populista newyorkese aveva dato alle stampe una storia su Hunter Biden, secondogenito dell’allora candidato democratico, basata su «un’enorme raccolta di dati recuperati da un computer portatile». In un laptop rinvenuto in un negozio di riparazione del Delaware – lo Stato di residenza della famiglia Biden – e girato al Post da Rudy Giuliani (il geniale architetto della conferenza stampa al Four Seasons Total Landscaping, ma non divaghiamo), i reporter avevano trovato le prove del passato coinvolgimento di Biden Jr. in una vicenda che riguarda una società energetica in Ucraina, Burisma, dove Hunter lavorava dal 2014 – e per cui ora è oggetto di un’indagine federale – oltre a video espliciti che documentavano le sue dipendenze da sostanze stupefacenti e alcuni incontri sessuali.
A pochi giorni dall’Election Day, per la campagna Biden quell’articolo rappresentava una spada di Damocle: i file interni a cui Taibi ha ottenuto l’accesso da Twitter – per volere personale di Elon Musk, che ha rilanciato la vicenda con grande trasporto – dimostrano proprio che i grand commis democratici hanno contattato privatamente la piattaforma per chiederle di limitare la circolazione della storia.
E Twitter ha detto di sì, all’inizio: la condivisione del link all’articolo del New York Post è stata limitata (in un eccesso di zelo, il team di moderazione dei contenuti ha persino reso impossibile l’invio tramite messaggi privati) e diversi account sono stati sospesi per averlo twittato, compreso quella della portavoce della Casa Bianca Kaleigh McEnany, finché due giorni dopo l’allora Ceo Jack Dorsey ha cambiato idea e chiesto scusa per la decisione.
Ufficialmente, in quelle prime ore Twitter aveva motivato la sua scelta di moderazione rifacendosi alle sue policy sui contenuti «rubati o hackerati»: secondo quanto riportato da Taibbi sulla scorta dei documenti di cui è entrato in possesso, però, all’interno della stessa azienda la motivazione appariva come una foglia di fico, dato che di norma la piattaforma applicava quella regola in presenza di un hackeraggio confermato dalle autorità.
Curiosamente, diversi soloni d’area (o aspiranti tali) di cui puoi sempre anticipare con precisione millimetrica le prese di posizione hanno ripetuto in coro un’altra esegesi: i tweet rimossi dal team di moderazione della piattaforma su pressione dell’entourage di Biden sarebbero stati «una forma di revenge porn», e come tali necessitavano di modalità d’azione speciali. Una spiegazione che Twitter non ha mai offerto al pubblico, nemmeno allora, e che suona parecchio come un tentativo di chiudere la questione prima di aprirla.
Beninteso, l’intera operazione dei Twitter Files ha tutta l’aria di essere anzitutto una trovata pubblicitaria orchestrata da Musk per dare risalto e pseudo-solidità alla sua mitopoiesi, secondo cui prima della sua venuta Twitter era un covo di estremisti di sinistra intenti a distruggere il free speech (nella seconda puntata della pubblicazione dei file, affidata alla ex giornalista del New York Times Bari Weiss, si documentano gli shadow ban ai danni di alcuni profili conservatori). Ma non c’è bisogno di essere muskofili come Taibbi o Weiss per accorgersi che qualcosa di cui preoccuparsi, in quei documenti, c’è eccome.
Se anche non concordiamo con le conclusioni del reporter (e il qui presente Piacenza, almeno, non vi concorda di certo), il fatto stesso che la rimozione di contenuti pubblicamente accessibili avvenga nel dietro le quinte di relazioni e interessi politici da ravvivare con un’email è un problema; che persone interne a Twitter e informate dei fatti non riuscissero a capire le regole che stavano venendo applicate, o perché, è un problema; che lo stesso Dorsey, a quanto si legge, non fosse informato del caso, è un problema.
Ed è un problema anche maggiore, a monte di tutto il resto, che esistesse (o, chissà, esista ancora) una prassi per cui ai potenti e ai gruppi di pressione sono riservate corsie preferenziali di interazione, da sfruttare per sottoporre richieste di censura e revisione a piattaforme private assurte a gatekeeper della comunicazione pubblica. Le altre vittime di revenge porn – quelle vere, magari – come fanno?
La lezione dei Twitter Files non è che la sinistra censura la libertà di espressione, vuole disfarsi del Primo Emendamento, o chissà quale altra corbelleria propagandistica (richieste del genere, poco sorprendentemente, arrivavano a dozzine anche dal team Trump): è che imprese private a cui abbiamo delegato la possibilità di accedere alle informazioni abdicano senza grande timore al loro ruolo auto-intestato di trasparenti abilitatori di dibattito, perdendo di vista i loro velleitari proclami di neutralità e dimostrandosi placidamente inclini a funzionare con l’antico meccanismo del favore all’amico importante di turno.
Il che mi fa dormire assolutamente sereno, considerando lo spessore e la sincera attitudine democratica degli amici della nuova proprietà di Twitter. Dico bene?
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