C’era una volta un senatore, tal Joseph Raymond McCarthy, che a partire dal 1950 suggerì all’America post-bellica che le più alte sfere del governo federale erano state infiltrate da veri e propri «traditori», come li chiamava il comitato di cui divenne un membro di spicco: persone che, a dire di McCarthy, in piena Guerra fredda avevano scelto di entrare nei ranghi del Partito comunista.
Il senatore del Wisconsin, rieletto al Congresso nel ’52, mise al centro della sua fervente attività anticomunista un’inquisizione sempre più esasperata, allargando il campo delle indagini al mondo dello spettacolo e delle arti, e nel giro di altri due anni la caccia alle streghe di cui era diventato il volto internazionale, oggi nota come maccartismo, era già un orrore del passato, giustamente coperto di ignominia.
Oggi però, con Donald Trump ed Elon Musk al timone del governo di Washington, le purghe repressive dopo più di settant’anni sono tornate di pressante attualità: nel giro di pochi giorni, dall’insediamento del 20 gennaio, i due hanno messo in campo la più colossale e sistematica persecuzione di origine governativa degli ultimi decenni statunitensi, che finora non ha peraltro incontrato una vera e propria resistenza. È, insomma, arrivato il MAGArtismo.
Siamo abituati da anni di passiva accettazione di piattaforme e algoritmi a esagerare tutto, a rendere qualsiasi cosa estrema, violenta o semplicemente senza precedenti: quello che sta succedendo al governo degli Stati Uniti, però, non ha davvero nessun termine di paragone soddisfacente nel passato recente o remoto.
Un nuovo dipartimento para-governativo diretto in modo costituzionalmente ambiguo da un miliardario del tech, il DOGE (Department of Government Efficiency), ha preso il controllo dei sistemi di amministrazione finanziaria federale, sottraendone i dati sensibili, utilizzandoli per additare capri espiatori e lasciandoli alla mercé di possibili attacchi informatici; quello stesso miliardario, Elon Musk, ha definito l’USAID, United States Agency for International Development – la branca del governo che finanzia programmi umanitari all’estero – «un’organizzazione criminale», e ha deciso dal mattino alla sera di interrompere le sue attività, lasciando migliaia di persone esposte alla violenza di territori e nazioni in guerra.
Più in generale, chiunque opponga la minima cautela all’auto-santificato fine di terminare gli sprechi di denaro pubblico – il caposaldo della propaganda di Musk e Trump – viene definito un corrotto in combutta con l’ancien régime (e succede non solo ai rappresentanti politici, ma a giudici, a operatori umanitari, a docenti universitari; insomma, a chiunque).
— Elon Musk (@elonmusk) February 12, 2025
L’amministrazione Trump ha già posto le basi legali per riscrivere le norme sulla cittadinanza basate sullo ius soli, stabilito – con un ordine esecutivo per «ristabilire la verità biologica» promulgato nel primo giorno in carica del presidente – che «la politica degli Stati Uniti riconosce due sessi, maschio e femmina», e imposto ai Centers for Disease Control and Prevention, il principale organismo della sanità pubblica statunitense, di rimuovere ogni occorrenza di termini come «transgender», «Lgbt» e «persona con utero» da documenti ufficiali, programmi federali e paper scientifici.
Quel che sta avvenendo somiglia in tutto e per tutto alla vendetta di bambini di sette anni particolarmente dispettosi: centinaia di impiegati federali con ruoli afferenti ai programmi DEI (acronimo di Diversity, Equity and Inclusion: le policy anti-discriminazione che sono state in vigore dalla metà degli anni Sessanta a pochi giorni fa) sono stati mandati a casa all’improvviso, dopo che Trump ha definito il loro lavoro «immorale e illegale» (e, quando un aereo di linea si è tragicamente scontrato con un elicottero militare sul fiume Potomac a Washington, lo scorso 29 gennaio, il presidente ha suggerito falsamente che la colpa fosse da ricercare nelle policy pro-minoranze).
È una lista senza fine, perché non si fa in tempo a riassumere le ultime esternazioni barbariche dei nuovi padroni degli Stati Uniti, che se ne sono già aggiunte di nuove. Dopo aver messo i portavoce di Musk a controllare i movimenti dei conti correnti del governo (non è un’iperbole) i trumpiani, resosi conto che l’obiettivo di rimpatriare un milione di migranti entro l’anno è un filo ambizioso, hanno chiesto al Congresso 175 miliardi di dollari di fondi per assumere nuovo personale da impiegare al confine col Messico. E quindi si spende troppo, o troppo poco?
Il maelstrom si ingrandisce di fronte all’incredulità e, in larga parte, all’inazione dell’opposizione Democratica, che d’altronde non si aspettava questo grado di attacco alle fondamenta delle istituzioni, né sa come e su che terreno replicare: Musk e Trump stanno testando la tenuta della democrazia americana e le possibilità di una svolta, se non proprio verso l’autoritarismo, di certo nella direzione di un ulteriore accentramento dei poteri presidenziali (ancora: chi mi segue sa che non uso formule del genere a cuor leggero), prendendo il controllo delle leve fondamentali dello Stato federale e piegandole a proprio piacimento.

Pressoché ogni ordine esecutivo di Trump è già oggetto di molteplici cause legali, riporta Axios, ma è un rischio calcolato: il presidente vuole che il suo editto che impone alle donne transgender di venire trasferite nelle prigioni maschili arrivi alla Corte Suprema. La scommessa è a tutto campo, culturale quanto politica, e in gioco c’è la concezione stessa dei valori alla base del welfare, dell’istruzione, della società e del ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Trump e Musk sono partiti in quarta nel loro tentativo di rendere gli USA il polo nevralgico di un tecno-nazionalismo cialtrone e strafottente, che poggia su fake news, disinformazione e nemici ben più immaginati che reali. Hanno il potere, ma anche i mezzi di comunicazione adatti a riuscire nel loro scopo (quelli a cui per anni abbiamo riconosciuto facoltà intrinsecamente progressiste che esistevano solo nel nostro ingenuo ottimismo).
Settant’anni dopo McCarthy, un privato cittadino americano non eletto ha ottenuto, nel giro di pochi giorni, il controllo diretto di sistemi informatici del Dipartimento del Tesoro che gestiscono migliaia di miliardi di dollari, minaccia di chiudere intere agenzie federali e mette in moto purghe di dipendenti non lealisti, agitando lo spettro della paralisi di Washington.
A questo ha condotto la radicalizzazione del trumpismo: una restaurazione ancora più instabile del primo regno, un delirio sempre in scena sul palcoscenico della viralità e fatto di illazioni, accuse, cambi di nome del golfo del Messico e pretese territoriali sul Canada, di interi gruppi di persone additate come nemiche pubbliche e singoli funzionari esposti alla gogna.
A sottolineare una delle radici del problema, di fronte ai primi ordini esecutivi firmati da Trump qualche commentatore da sofà si è affrettato non tanto a condannare gli scempi di cui davano conto le cronache, quanto a fare gnè gnè ai suoi avversari percepiti sui social media, quelli che parlavano – non importa come – di cancel culture: un’espressione propagandistica che, si legge, non ha fatto altro che stendere un tappeto rosso per Trump, aiutandolo a trionfare (in quest’ottica il sottoscritto, che ha speso centinaia di migliaia di parole, un libro, una newsletter, quarantacinque eventi e un po’ di soldi per provare a inquadrare il discorso su cui ha puntato Trump e circoscriverlo, depotenziandolo, vale un Francesco Giubilei col cappellino rosso a un comizio del MAGA: un’analisi affascinante, benché un po’ lisergica).
Tuttavia, ecco: dissento, nella forma e nella sostanza. Nella forma, perché è davvero miserevole che mentre un Paese intero – e centinaia di migliaia e poi milioni di persone – finiscono sottosopra, la priorità sia segnare punti virtuali di fronte a un uditorio di like e cuoricini (il che, in scala, è anche un problema sociale); nella sostanza, proprio perché la parabola di Trump – quella che l’ha portato alla vittoria a novembre, di cui il cosiddetto woke è parte – non è iniziata ieri, sarebbe stato bene discutere da principio in modo critico e “strategico” dei temi su cui facevano perno le sirene della destra, in modo da avere gli strumenti per disinnescarli e contrastarli.
Mettere la testa sotto la sabbia non ha aiutato, né ha aiutato trincerarsi dietro il “non importa se non ci capiscono o se qualcuno dei ‘nostri’ sbaglia: in fondo abbiamo ragione”. Ancora una volta: la ragione non va twittata in cerchie di appartenenza elitaria, resa una clava settaria su Instagram o tramutata in meme virali su TikTok; nella ragione non ci si specchia per i like e qualche ospitata alla festa del libro di Montelupo Fiorentino; la ragione va spiegata e resa un discorso politico intelligibile, su cui costruire alleanze di classe, di prospettive sociali, di resistenza.
Perché altrimenti continuerà a vincere il più bravo a falsificare, ridurre a slogan e rendere una gara di simboli avulsi dalla realtà: attualmente è un signore biondo che, in dieci giorni, coi suoi amici ha già messo a soqquadro la democrazia americana.
Altre news dal fronte
- Un’opinione che non condivido del tutto, but still: è stata proprio la cosiddetta cancel culture a portarci qui?;

- A cosa porta, materialmente, la purga trumpiana sulla DEI nelle borse di studio universitarie;

- Comunque sia: ai Repubblicani piacciono molto i tagli alla spesa pubblica, basta che non siano messi in atto nei loro Stati.