La grande guerra all’università


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Non è un mistero per nessuno che l’attuale governo degli Stati Uniti d’America stia cercando attivamente di rovesciare lo stato di diritto e muoversi a passi decisi verso l’autoritarismo: lo dimostra lo stesso Donald Trump su base quotidiana, firmando ordini esecutivi e sciorinando dichiarazioni, deliberazioni e provocazioni di chiaro stampo fascista (e chi legge questa newsletter sa che, a differenza di quanto avviene altrove, le parole qui vengono scelte con cura).

Lo scopo e la scala degli atti liberticidi di persecuzione e criminalizzazione del pensiero sono così inusitati che, per un paradosso grottesco, è diventato persino difficile stargli dietro: basta passare una giornata lontano dalle news e dagli schermi per perdersi l’ultima epurazione istituzionale comandata dagli scranni del potere di Washington.

Certe storie però rimangono impresse, più delle altre.

Canary Mission, un sito anonimo di estrema destra dedito al doxxing di «persone e gruppi» che, a suo dire, «promuovono l’odio per gli Stati Uniti, Israele e gli ebrei», a febbraio ha dedicato una pagina a Rumeysa Ozturk, trentenne studentessa di dottorato di origini turche della Tufts University del Massachusetts (e, in precedenza, titolare di una borsa di studio alla Columbia), accostandola alla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023.

Ozturk non ha nessuna relazione con Hamas: ciò che l’ha fatta finire nella lista di proscrizione è un editoriale sul giornale della sua università che ha co-firmato con altri due studenti lo scorso 26 marzo, dove si chiede alla Tufts di rispettare una risoluzione del senato studentesco che vuole che l’ateneo riconosca il genocidio dei palestinesi e interrompa ogni relazione con aziende vicine a Israele.

Una posizione su cui si può essere più o meno d’accordo, ma che ha verosimilmente portato – o contribuito a portare – a una scena da Kristallnacht (di cui esiste, peraltro, un terribile filmato): sei agenti federali in borghese l’hanno circondata di fronte alla sua casa di Somerville, non lontano da Boston, strattonata, ammanettata e portata con la forza su un’auto non identificata. Per più di 20 ore i suoi immediati familiari non hanno avuto sue notizie, mentre lei veniva trasferita a 2700 chilometri di distanza – sì, hai letto bene – in una prigione federale per migranti della Louisiana, la stessa dove è stato portato Mahmoud Khalil.

Se nel caso di Khalil – a sua volta di una gravità a cui non siamo abituati parlando di notizie dagli Stati Uniti – si trattava quantomeno del leader noto di una protesta pro-Palestina di primo piano, nel caso di Rumeysa Ozturk non vige nemmeno questo lontano appiglio: la donna è una dottoranda come tante e tanti, con una specializzazione nello sviluppo umano e le tematiche dell’infanzia, e non esiste nessun motivo costituzionalmente spiegabile per cui la sua presenza nel Paese possa essere di rilevanza per le autorità federali.

Parlando del suo arresto, il segretario di Stato Marco Rubio ha detto:

[Da oggi] se fai domanda per un visto per entrare negli Stati Uniti da studente e ci dici che il motivo per cui stai venendo non è solo perché vuoi scrivere editoriali, ma perché vuoi partecipare a movimenti che fanno cose come vandalizzare università, molestare studenti, occupare edifici, creare agitazione, non ti daremo un visto. Se menti ed entri negli Stati Uniti e con quel visto partecipi a quel tipo di attività, te lo toglieremo.

Ma Ozturk non ha partecipato a nessuna di quelle «cose»: non esiste nemmeno il barlume di una prova in direzione contraria, né la dottoranda è stata incriminata di un qualunque reato. Soprattutto, non c’è ragione di pensare che abbia «mentito» per il suo visto: non ha fatto nient’altro che firmare un editoriale contenente le sue idee, giuste o sbagliate che fossero.

Quando Rubio, Trump o J. D. Vance cercano di motivare queste persecuzioni mirate, tipiche da Stato autoritario (appunto), con la carta velina dell’accostamento ad Hamas, quel che non dicono è che vogliono reprimere l’attivismo filopalestinese tout court. Anzi: qualsiasi attivismo che risulti a loro sgradito.

Quando lo stesso Rubio si vanta di aver già fatto espellere più di 300 di «questi folli» (leggi: studenti che hanno espresso un’opinione nel Paese delle libere opinioni, ora governato da quelli che hanno vinto le elezioni promettendo la restaurazione della libertà di espressione), e di starne cercando di nuovi «ogni giorno», fa finta di non vedere che l’unico folle nella stanza è lui.

Il punto, tuttavia, è che non è solo folle: è un gerarca fascistoide a capo di quella che siamo stati abituati a definire la più grande democrazia mondiale. Non è una cosa da poco: fino all’anno scorso, una studentessa turca rimpatriata ad Ankara dagli Usa avrebbe ancora trovato sostanziali differenze nelle garanzie costituzionali rispettate dal potere costituito ai vertici dei due Paesi. Oggi invece, con ogni probabilità, non le troverebbe.

Il caso di Ozturk è solo un tentacolo della piovra dell’attacco del governo di Trump all’istruzione superiore: quello che ha visto il neo presidente degli Stati Uniti minacciare le università che non avrebbero piegato il capo al suo volere censorio di venire deprivate di milioni di dollari in fondi federali, o finire oggetto di meticolose indagini.

E il capo l’hanno piegato, le università: prima fra tutte la Columbia di New York, a cui le istituzioni federali (e Trump stesso) avevano fatto sapere che avrebbero tolto 400 milioni di dollari di finanziamenti annuali se l’ateneo non avesse cambiato profondamente le sue politiche di ammissione, ristretto le sue norme sulle proteste nel campus e dato più potere repressivo alla polizia interna.

Dopo pochi giorni, la Columbia ha deciso di accogliere l’avvertimento e capitolare, segnando un precedente foschissimo e rompendo gli argini all’ingerenza del governo nell’istruzione superiore: non a caso, commentando con compiacimento le intervenute modifiche, le agenzie governative coinvolte nel ricatto hanno dichiarato che «il rispetto da parte della Columbia delle premesse della Task Force è solo il primo passo per riabilitare il suo rapporto col governo e, cosa ancora più importante, coi suoi studenti e docenti».

Nemmeno a dirlo, quegli «studenti e docenti» in realtà stanno vivendo ore drammatiche, che con le legittime richieste degli studenti ebrei di poter vivere tranquillamente nel campus non hanno mai avuto nulla a che fare. È lo stesso ex rettore della Columbia Lee Bollinger ad aver definito quanto accaduto «un colpo di mano autoritario» (ma non avviene soltanto nelle università: l’ICE – acronimo di U.S. Immigration and Customs Enforcement – prende di mira persone comuni anche per strada, in pieno giorno).

Chi può, scappa. Come il professore di filosofia di Yale Jason Stanley, già studioso di fama internazionale dei fascismi, e i colleghi storici Timothy Snyder e Marci Shore, marito e moglie, che hanno deciso di trasferirsi alla University of Toronto per non rischiare di finire imbavagliati entro breve.

«Stanno umiliando le università, e non le vedo reagire», ha commentato amaramente Stanley a CNN. È vero, perlomeno a livello apicale: la Columbia avrebbe potuto seguire altre strade, invece di darla vinta alla nuova amministrazione senza nemmeno provare a contrastarla.

Certo, avrebbe messo a repentaglio la sua sostenibilità economica, e in certe situazioni bisogna prima trovarcisi, tutto quel che vuoi: ma un’istituzione come la Columbia University avrebbe potuto farsi garante e simbolo di una resistenza vera, politica, alla svolta autoritaria di Trump.

Nelle sue casse sarebbero verosimilmente arrivate donazioni milionarie che le avrebbero permesso di organizzare le barricate, prendere tempo, e soprattutto dimostrare ai migliaia di atenei statunitensi con meno forza di negoziazione che c’era ancora una speranza a cui aggrapparsi. E invece ha scelto la resa, la scelta più comoda.

Se ricordi – sempre se eri già iscritto/a al tempo – da queste parti abbiamo già parlato di un certo conformismo di fondo che domina le istituzioni americane, della loro attitudine a una comodità che combaci con l’inerzia del sistema: si va via con la corrente, senza farsi troppi problemi, e di certo senza servire un ruolo da bastioni del pensiero libero e dei diritti.

Se il vento cambia direzione, le convinzioni assunte per convenienza, prive di radici, volano per aria in un secondo: è questo, tra le altre cose, che da anni cerchiamo di ripetere in questo piccolo osservatorio artigianale.

Il vero problema delle insondabili burocrazie dei campus – ma potremmo dire anche degli uffici marketing di aziende multinazionali o di altre branche del terziario avanzato – degli anni pre-Trump non era che sposassero idee sbagliate: era che le sposavano in modo così svogliato, ipocrita e controproducente che tutto lasciava presagire che, arrivate quelle sbagliate, avrebbero sposato anche quelle.

Il tempo, malauguratamente, ha confermato quel timore. Le università-corporation non hanno fatto un plissé: a portare in tribunale i ricatti anticostituzionali di Trump, quelli per cui perdi i fondi se parli di razzismo o femminismo, sono stati alcuni professori e funzionari.

E la notte dell’accademia americana diventa sempre più buia.

Altre news dal fronte

  • Ma chiudiamo con una nota di ottimismo. Se non altro, in questi tempi dominati da gnègneisti professionisti e banderuole pronte al salto della barricata, a risaltare con chiarezza luminosa è chi dimostra coerenza di valori e principi: Substack è fra questi ultimi (io oggi non la uso – sono su Ghost, un’altra piattaforma – ma domani chissà).
🫰
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