La locura del Panopti–content


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«Se questo tizio sul volo United Airlines 2140 da Houston a New York è tuo marito, stasera probabilmente dormirà con una certa Katy. TikTok, fai la tua magia».

La scena è piuttosto semplice da immaginare. Un uomo e una donna, su un aereo. Un paio di drink, una chiacchierata. Accanto, una persona ascolta, si appassiona a quelle parole, a quelle storie.

Ricostruisce una vicenda di tradimento, una moglie e una figlia lasciate a casa per passare un po' di tempo con un’altra donna. Decide che quel fatto va raccontato: registra un video, scrive una lunga caption, pubblica su TikTok.

Il video – ora cancellato – diventa virale. Ne segue un altro, da oltre un milione di visualizzazioni. Nei commenti, le persone iniziano a cercare la moglie tradita: e ovviamente la trovano, dopo poco tempo. La taggano: espongono il suo nome, la sua storia, la sua vita privata a milioni di persone. Probabilmente lo fanno a fin di bene, con l'idea di partecipare a una sorta di giustizia collettiva.

È la magia di TikTok: in sostanza, l’illusione di avere a disposizione una realtà che possa intrattenerci. Una realtà con cui possiamo interagire, che possiamo condizionare, in cui possiamo recitare la parte di spettatori protagonisti. Guardando contenuti, commentando, producendo contenuti a nostra volta.

È ciò che un bell’articolo di BuzzFeed News chiama «Panopticontent»: una sorta di sistema di sorveglianza collettivo, a cui partecipiamo con lo scopo di costruire un'identità digitale sui social network. Tutto è un contenuto: quindi, tutti sono personaggi che popolano il mondo del mio intrattenimento.

Ci sono due riflessioni da fare, a partire da una premessa: qualunque sia lo scopo, non è mai sensato – ed è un reato – filmare qualcuno e pubblicarne le immagini su internet senza il suo consenso. Con questo terreno comune, le questioni in campo sono almeno un paio, come dicevo. La prima è di piattaforma, di una tecnologia che abilità una nuova modalità di relazione con il mondo. TikTok, lo sappiamo, ha trasformato i social media in spazi basati sugli interessi, sui contenuti: non importa chi tu sia, l’algoritmo può far arrivare il tuo post a ogni latitudine. 

È l’istituzionalizzazione di quello che per lungo tempo abbiamo chiamato collasso del contesto. Che è una cosa nata su Twitter, con quella formula del main character, usata per identificare il tweet che diventava virale, che usciva dalla bolla per entrare nella colonna dei trend.

Ecco, il collasso del contesto è la possibilità che una comunicazione immaginata per un pubblico e una situazione specifica esca da quelle precondizioni precise, per arrivare alla portata di tutti. Succede tutto il tempo, e succedeva anche prima di TikTok. Ma la piattaforma cinese ha istituzionalizzato questa conseguenza inattesa.

L‘ha resa una feature, anzi: ogni contenuto può – o meglio: deve – avere la possibilità di arrivare a tutti gli utenti. E questo moltiplica le conseguenze della diffusione di un video girato all’insaputa della persona ripresa: non è più un’esposizione a un gruppo più o meno ristretto di persone; è finire sui giornali dopo un milione di visualizzazioni.

La seconda riflessione ha a che fare con le modalità con cui ci relazioniamo a ciò che sta intorno a noi. Va ripetuto ancora una volta: i social non sono più spazi di relazioni sociali. Sono, invece, piattaforme di entertainment, in cui entriamo per passare del tempo, informarci, scoprire cose nuove. È un cambiamento enorme, travestito da semplice evoluzione nell’uso di uno strumento. 

Per anni, infatti, le nostre modalità di intrattenimento e relazione con la realtà hanno avuto regole precise: storie, personaggi, sospensione dell’incredulità. Quella cosa che sto vedendo è verosimile, sembra vera, ma è solo realistica. «I fatti sono inventati, è vera la realtà sociale che li produce», per parafrasare i titoli di testa di Le mani sulla città di Francesco Rosi. A rompere quest’equilibrio è poi arrivata la reality tv che, per la prima volta vent’anni fa, ha preteso di raccontare storie vere. Quelle sono persone, insomma, non personaggi, seppur costretti in un contesto preciso (la casa del Grande Fratello) o in uno script riconoscibile (Uomini e donne, per dirne una). 

Ecco, nella loro forma attuale i social media sono l’evoluzione della reality tv. Del resto, chiunque può pubblicare e la grammatica impone che non ci sia – o che si nasconda – qualunque mediazione, in nome dell’autenticità. Le persone che vediamo lì dentro, le storie di cui fruiamo, sembrano reali: non ci sono personaggi, nessuno interpreta qualcun altro.

Eppure, quando cerchiamo di divertirci, lo diventano: li vogliamo nella parte che abbiamo scelto per loro, esigiamo che facciano quello che ci aspettiamo, che reagiscano ai nostri stimoli. Trattiamo quelle storie con l’indifferenza morale che riserviamo ai personaggi. Sì certo, ci affezioniamo, ma a contare è la funzione ultima: vogliamo essere ingaggiati o, dall’altro lato dello smartphone, creare engagement in funzione della ricerca di una validazione sociale.

Il corollario è semplice, quanto inquietante: se tutto è contenuto, e se i social network sono la principale porta d’accesso al mondo per un numero molto alto di persone, allora il Panopticontent altro non è che la trasformazione di qualunque cosa in un prodotto di intrattenimento.

Sarà inflazionata, ma in chiusura mi pare funzioni bene quella frase che uno dei tre sceneggiatori di Boris pronuncia mentre cerca di spiegare a René Ferretti la «locura», l’ingrediente segreto delle nuove produzioni della fantomatica rete televisiva infida e vessatrice: «Un paese» (o un mondo, ormai?) «di musichette, mentre fuori c’è la morte».

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