Di recente è uscito in Italia un libro importante e controverso – se ne è parlato anche da queste parti – di uno psicologo americano, Jonathan Haidt. Il testo, La generazione ansiosa, lancia un monito che si potrebbe riassume come segue: i social media stanno rovinando le menti dei giovani statunitensi; è ora di fare qualcosa. Ed è probabile che sia stato anche l’effetto del bestseller di Haidt, a creare un contesto culturale favorevole alla legge appena approvata in Australia, che vieta le piattaforme social ai minori di 16 anni d’età.
Si tratta di una norma che segna un precedente importante, ma che è ancora molto vaga. Quello che sappiamo è che le piattaforme dovranno trovare un modo – ne riparleremo – per evitare che i minori di 16 anni possano avere un account. E che riguarderà – per ora ufficiosamente – Snapchat, TikTok, X, Instagram, Reddit e Facebook. Non YouTube, WhatsApp e Facebook Messenger, per citarne alcuni fra gli esclusi eccellenti.
Ma dicevamo di Haidt. Nel libro di quella che oggi è una star della saggistica d’oltreoceano le conclusioni sono simili a quelle del governo australiano. È proprio Haidt, infatti, a proporre in fondo al testo il divieto di accesso allo smartphone prima dei 13 e ai social media prima dei 16 anni compiuti.
Tutto giusto, almeno in superficie. Eppure, a guardarla bene questa idea del divieto ha un paio di difetti importanti. Uno di natura culturale, e un altro sul piano un po’ più pratico.
C’è un passaggio de La generazione ansiosa, una delle analisi più centrate di Haidt, che riguarda una cosa che potremmo chiamare effetto di gruppo dei social media. È in una parte del saggio in cui si parla di come misurare le conseguenze delle piattaforme: sono paragonabili, da un punto di vista scientifico, allo zucchero? Scrive Haidt:
I social media non influiscono solo sulla persona che li consuma. Quando sono arrivati nelle scuole nei primi anni Dieci, sugli smartphone nelle tasche degli studenti, hanno cambiato rapidamente la cultura di tutti. Gli studenti parlavano di meno tra le lezioni, a ricreazione e a pranzo perché iniziavano a passare gran parte di quei momenti a controllare il telefono, spesso coinvolti in piccoli drammi durante tutto l’arco della giornata. Questo significa che guardavano qualcuno negli occhi meno di frequente, ridevano insieme di meno e perdevano l’abitudine a fare conversazione. I social media quindi nuocevano anche alla vita sociale degli studenti che se ne tenevano alla larga.
Una premessa che serve a Haidt per arrivare a una conclusione: l’approccio individuale non basta; servono iniziative collettive, condivise. Che è un po’ quello che ha fatto l’Australia: ma le dinamiche di gruppo restano. E rimarranno un problema quando, ad esempio, ragazzi e ragazze sotto i 16 anni avranno a che fare con chi è invece già legittimamente autorizzato a usare le piattaforme. O quando i genitori o gli insegnanti prenderanno decisioni sulla base di quegli stessi modelli culturali e sociali vietati ai minori di 16 anni.
Senza dimenticare il fatto che a quei modelli i minori di 16 anni potranno accedere attraverso altri spazi: considerare sicuro YouTube – che ospita alcuni tra i contenuti più pericolosi per bambini e adolescenti – desta qualche perplessità.
Insomma, è difficile non vedere questa mossa draconiana come un tentativo di trovare il capro espiatorio di un sistema che ha prodotto in prima istanza queste piattaforme e i loro effetti collaterali. Un contesto economico, culturale e sociale che, a partire dagli anni ‘80/’90, ha puntato sull’individualizzazione, sull’ottimizzazione di ogni attività in funzione lavorativa, sullo smembramento progressivo dei cosiddetti corpi intermedi e della scuola pubblica.
Lo stesso Haidt parla del passaggio da un’infanzia basata sul gioco a una basata sugli schermi. Il punto è che la causa non sono i social network di per sé: è anzitutto l’indolenza di cui necessita il sistema economico capitalista, quella che porta alla costruzione di spazi sicuri, alla promessa di avere il mondo a portata di mano, per evitare di abitarlo. Le piattaforme sono le sue conseguenze, figlie di un modello estrattivo colossale, che in questo caso ha guardato all’intera esperienza umana e non solo a uno specifico prodotto o segmento di mercato.
Come se non bastassero queste premesse culturali, in ogni caso, resta il fatto che mettere in pratica un divieto del genere, oggi, è enormemente difficile. Risulterà molto complesso verificare l’età di chi accede a una qualunque piattaforma: gli unici modi credibili per farlo sono i sistemi di identità digitale (come il nostrano SPID) e le tecnologie biometriche. E sono entrambe modalità facilmente aggirabili, con l’aiuto di genitori compiacenti, e che non fanno altro che garantire infornate di ulteriori dati sensibili da dare in pasto alle piattaforme.
C’è, in fondo a questa vicenda, un’amara verità, quella che gli americani chiamerebbero una ugly truth. Ed è che questa dei social media non è una faccenda così facile da gestire, al punto in cui siamo arrivati.
Servono, certo, interventi legislativi mirati, che possano regolamentare la vita all’interno delle piattaforme. Servono però anche fatica, educazione, uno sforzo condiviso che abbia l’obiettivo di togliere un po’ di centralità a questi spazi. Che sono pericolosi soprattutto se rappresentano la principale porta d’accesso alla realtà, se rischiano di essere confusi – soprattutto da chi si trova negli anni della crescita – col mondo vero e proprio.
E questo passa anche per la costruzione di alternative credibili, che rompano un monopolio dell’attenzione che le piattaforme in questi anni hanno costruito: cose molto più difficili di un divieto con cui guadagnare i titoli dei giornali di mezzo mondo, ce ne rendiamo conto.
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