Il giorno dello scoiattolo


Lunedì 4 novembre è l’ultima giornata piena di campagna elettorale per le presidenziali statunitensi: sono stati mesi densi di colpi bassi, balle spaziali, polemiche montate sul nulla e colpi di scena tra il lisergico e il grottesco, ed è per questo che mi sembra tutto sommato adeguato che il tutto culmini in una mobilitazione generale per lo scoiattolo Peanut.

No, non sono impazzito – non ancora, almeno: i Repubblicani più tenacemente online stanno accatastando decine e decine di migliaia di like indignati intorno al caso della soppressione di due animali nello Stato di New York, Peanut the Squirrell e Fred the Raccoon (questi i nomi dei defunti).

Il buon Peanut è stato definito dal Guardian «una star dei social media», per cui non deve sorprendere che la sua uccisione – disposta dal Department of Environmental Conservation statale perché il suo proprietario non disponeva dei permessi legali per tenerlo in casa e l’animale era a rischio di trasmissione di malattie – abbia attirato critiche. Più insondabile e oscuro risulta il comprendere come il fatto sia diventato un nodo del contendere in chiave elettorale. Prendi questo tweet guarnito dall’immancabile, orrido video in IA:

«Pets 4 Trump», già: è tutto vero. Come sono vere le liste di proscrizione con nomi e cognomi e foto dei responsabili della soppressione, o l’incredibile serie di tweet dedicata alla questione dal gran visir trumpiano Elon Musk.

E insomma, cos’altro posso dire su un gruppo dirigente che fra una settimana potrebbe verosimilmente avere le mani sulla prima superpotenza mondiale e oggi si balocca coi video di uno scoiattolo? C’è un limite anche all’ingratitudine di questo lavoro, ecco.

Torniamo allora alla cosiddetta bigger picture, come la chiamano di là. Sono reduce da quasi tre settimane nell’Ovest americano (se sei abbonato a questa newsletter lo sai già da tempo, altrimenti puoi leggere un resoconto breve del viaggio che ho appena scritto per Lucy), dove ho trovato un Paese spaccato, in maniera più grave di quanto immaginassi: un po’ perché le persone con cui ho parlato si sono dichiarate distanti dalla politica, hanno preferito non parlarne o nascondersi dietro variazioni di un mai così improbabile «sono tutti uguali».

L’impressione che ho avuto è quella di un popolo che, nella sostanza, non ne può più della cura Ludovico di polarizzazione indotta a cui si è nemmeno troppo consapevolmente sottoposto. Anche i più “ingaggiati” dalla corsa elettorale (la sorridente signora di Williams, Arizona in procinto di andare a votare Trump «perché del voto per posta non mi fido», la barista Lgbt di Castro con la coccardina pro-Harris e tanti altri) mi sono sembrati celare un velo di stanchezza, come se in fondo volessero solo raggiungere la fine del tunnel.

In ogni caso, domani, 5 novembre, si deciderà che strada prendere: metà America però ha già votato coi metodi alternativi messi a disposizione dagli Stati, l’early voting ha infranto ogni record e probabilmente quella disaffezione che ho letto nei volti della gente in California e Arizona nasconde sotto il pelo dell’acqua una gran voglia di togliersi di torno lo spettro di un governo degli avversari.

Qualche dato da tenere a mente: il primo, inevitabile, è che i sondaggi pre-Election Day sono, e continuano a essere, del tutto appaiati. Nei sette Swing States – Arizona, Georgia, Nevada, Wisconsin, Minnesota, North Carolina, Michigan e soprattutto Pennsylvania – la situazione è inestricabile, con divari ampiamente nei margini di errore dei sondaggi e una generale incertezza su quel che succederà.

Ovviamente questo non significa che, alla fine, non ci sarà una vittoria anche larga, una cosiddetta landslide: i Democratici negli ultimi giorni hanno iniziato a farsi cautamente ottimisti (poco prima però si dicevano altrettanto cautamente pessimisti, va detto), mentre lo stesso Trump, in modo per lui quasi inedito, ha aperto in un’intervista alla possibilità di perdere, pur dicendosi in vantaggio e convinto di uscire trionfatore dai seggi.

E siccome i giorni dello scoiattolo talvolta si tramutano in giorni della marmotta, è bene tenere a mente che le schermaglie importanti non finiranno domani: il 2020 ci insegna che il trumpismo non è particolarmente incline ad ammettere le vittorie altrui, e anche a questa tornata sia Trump che i suoi (Musk in primis) hanno propalato al proprio elettorato la ripetutissima menzogna di un plebiscito in favore del tycoon, che solo delle profonde interferenze elettorali Democratiche avrebbero potuto sventare.

Le prossime date da cerchiare sul calendario sono:

  • 11 dicembre: è la nuova data in cui i governatori degli Stati dovranno certificare i risultati dell’elezione presidenziale, presentando i nominativi dei loro grandi elettori (se non sai di cosa parlo, clicca qua);
  • 17 dicembre: I grandi elettori votano nei parlamenti statali il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti. È il giorno in cui i governatori degli Stati in bilico temono sommosse, visti i precedenti e il clima generale;
  • 6 gennaio: Arrivati al nuovo anno, i deputati di quello che sarà il 119esimo Congresso si riuniranno per contare i voti espressi quasi un mese prima su base statale, sulla base dei precetti dell’Electoral Count Act, la legge aggiornata nel 2022 dopo la tentata sedizione trumpiana al Campidoglio (dettaglio-non-dettaglio: con le nuove regole – che avrebbero fatto comodo a Mike Pence – il vicepresidente sarà presente in aula solo per annunciare i risultati).

Vedremo come andrà a finire, e ci vorrà una pazienza di cui molti non sono capaci (e che a molti altri semplicemente non conviene). I miei proverbiali due centesimi, che valgono quel che valgono, tenendo conto di tutto vanno su Kamala Harris: perché in fondo sono convinto che i sondaggi non tengano conto di quanto la spinta delle donne si rivelerà centrale per i Democratici, e ancora più in fondo penso e spero che un uomo che ancora oggi continua imperterrito a dare dei «ritardati» ai suoi avversari, minacciando di mandarli in galera per vendetta, non possa diventare presidente per la seconda volta.

Ma è possibilissimo che mi sbagli, purtroppo.

Altre news dal fronte

  • Approfondimento: gli uomini afroamericani voteranno Trump? E se sì, perché?;
  • Un’interessante ricerca di un assistant professor di Harvard su come i latinoamericani abbiano virato a destra dopo la diffusione del termine gender inclusive “Latinx”, un’invenzione dei portavoce d’élite Democratici che mal sopportano;
  • La brutta storia dello studio sui farmaci bloccanti della pubertà per i minori transgender che ha trovato risultati che una parte politica avrebbe potuto strumentalizzare, e per questo opinabile motivo è stato ritirato.

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