Sarà che sono una mammoletta (sempre stato) o che certe dinamiche di interazione social iniziano a far sentire il loro peso e il loro effetto di logoramento a lungo termine (cosa più recente), ma ci tengo ad aprire la puntata di oggi con una storia minore, laterale, personale e rivoluzionaria.
È uno scambio avvenuto su Twitter tra Nicholas Grossman, senior editor di Arc Digital (sito, o meglio network di newsletter, che peraltro ti consiglio) e professore all’Università dell’Illinois, e Parker Molloy, scrittrice e attivista transgender.
Antefatto: il New York Times in settimana ha pubblicato un articolo di commento della sua nuova opinionista Pamela Paul, titolato «The Far Right and Far Left Agree on One Thing: Women Don’t Count». È un pezzo che si rivolge alla questione principe tra i debates in corso negli Stati Uniti (e, per lontano e limitato riflesso, un po’ anche dalle nostre parti), quella sul linguaggio inclusivo per le persone transgender e l’uso in ambito medico-assistenziale di circonlocuzioni come “persone con utero” in luogo di “donne” – un termine che, secondo alcuni, taglierebbe fuori trans e non binari. Ma lo fa con un inquadramento errato: postula un’equivalenza di fatto tra una sentenza che ha riportato i diritti femminili indietro di cinquant’anni, quella della Corte Suprema sull’aborto, e una nicchia di attivisti che, per quanto veemente e spesso irragionevole, non può essere accostata con tale leggerezza al fronte antiabortista.
Per come la vedo, le due radicalizzazioni di cui parla l’op-ed sono diverse non solo nella sostanza, ma anche nelle micce d’innesco: nella destra americana le frange cristiano-evangeliche, che negli ultimi trent’anni hanno perso terreno e palcoscenico, si sono specializzate in un sistema di alleanze strategiche e condizionamenti politici che le ha portate alla clamorosa vittoria di Roe v. Wade; a sinistra la situazione è invece nuova e in divenire – così come dimostrano i codici comunicativi di riferimento dell’area, in perenne cambiamento – e si articola soprattutto attorno a guerriglie social e furberie corporate. Insomma: mele e pere, almeno nell’ottica di un’equivalenza formale. La teoria degli “opposti estremismi” potrà avere qualche intuizione sensata nel tracciare lo scenario di un certo spostamento a destra dell’asse ideologico del repubblicano medio, ad esempio, ma difficilmente – eufemismo – spiega quanto successo alla Corte Suprema.
Non significa che Paul non abbia le sue ragioni, quando critica i “bodies with vagina” finiti in copertina su prestigiose riviste scientifiche, che com’è intuibile rischiano di non fare un gran servizio alla causa femminista (ne abbiamo parlato la settimana scorsa, e anzi, mi corre l’obbligo di un’errata corrige en passant. Ho erroneamente definito un paper di specialisti di salute femminile e ostetricia «studio», cosa che non era: era un opinion piece, cioè un articolo di opinione peer-reviewed pubblicato su una rivista scientifica. Vista la specializzazione degli autori mi pare che la sostanza non cambi di molto, ma quel che è giusto è giusto e mi scuso per l’errore). Ma la messa sullo stesso piano dei due fenomeni operata dall’articolo è poco equilibrata, e in definitiva squalifica il commento tout court.
Ma veniamo al tema portante, cioè all’atto rivoluzionario che mi ha commosso: Nicholas Grossman ha commentato sul suo profilo Twitter un intervento del professore di filosofia di Yale Jason Stanley, che da tempo si è fatto notare per alcuni interventi poco, ehm, filosofici sulle questioni inclusive (conditi da un uso un po’ creativo della parola «fascista»). Riassumendo: Stanley in un tweet sostiene che l’uso di argomenti come quelli portati da Paul sul Times – anche qui, detta male: “Stanno cancellando le donne” – non sia altro che un aggiornamento della cosiddetta teoria della Grande sostituzione, la balla propagandata dall’estrema destra occidentale secondo cui l’immigrazione sarebbe controllata da burattinai che avrebbero interesse a sostituire – appunto – le etnie europee.
Grossman ha scritto quel che leggi sopra: assimilare una teoria del complotto pluri-citata da terroristi in stragi sanguinose a un discorso sulla terminologia di genere è una fesseria – questo lo dico io: lui dice «un errore» – sul piano analitico. Aggiungendo: «Non vedo problemi nel criticare un op-ed del Nyt che dice che il linguaggio inclusivo non è soltanto una minaccia per le donne, ma una paragonabile alle istituzioni che limitano i diritti femminili. Però i dibattiti su che parole usiamo per riferirci al genere e un movimento terrorista e razzista non sono la stessa cosa».
Nelle risposte è comparsa Parker Molloy, che ha centinaia di migliaia di follower, ed era molto incazzata (Molloy pare aver cancellato i primi tweet della controversia in un secondo momento, e io non sono un tipo da screenshot a cuor leggero: dovrai credermi sulla parola): con una gragnuola di tweet, ha detto a Grossman che era un fascista che stava facendo apertamente apologia di transfobia; si è chiesta come devono sentirsi i suoi studenti universitari, e se anche nei corsi accademici è così «ostile alle minoranze»; ha scritto che Grossman si dovrebbe vergognare per il suo supporto reazionario alla violenza contro le donne trans.
Il suo interlocutore, dal canto suo, ha mantenuto la calma, spiegando che no, non stava affatto dicendo che le persone trans non meritano pieni diritti e attenzioni anche linguistiche (non a caso, lui stesso aveva segnalato che le critiche al New York Times erano non solo legittime, ma anche sensate), ma soltanto che accostare il complottismo di estrema destra alle discussioni interne al femminismo è un argomento sbagliato e controproducente. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti della perfetta Twitter spat: non un vero e onesto confronto, ma una pioggia di accuse esponenziali a grappolo, con fazioni che si schieravano lungo le barricate, pronte a colpire l’avversario/a con qualche sassolino dalle retrovie. Il solito mesto spettacolino socialmediale.
Invece a un certo punto le acque del mar Rosso si sono divise, una luce accecante ha illuminato il cielo – se ricordo bene – ed è successo questo.
Chi non conosce Twitter (o qualsiasi altro social network, in realtà) potrà pensare che abbia passato troppo tempo sotto il sole, ma questo battito d’ali di farfalla, anche senza generare uragani, è una gemma: pensa che mondo – digitale e non – sarebbe se solo riuscissimo a tornare a essere gentili, comprensivi, caritatevoli con gli altri, quando si può. Pensa che rivoluzione copernicana potrebbe innescare. Immagina quanto sangue amaro in meno, di quanto tempo inutilmente gettato ci riapproprieremmo, il modo in cui torneremmo a vedere le persone come esseri umani, prima che come Terf, o transfobi, o woke, o quel che vuoi.
Pensa come vivremmo, se vivessimo senza dare sempre, automaticamente, per scontate le peggiori intenzioni in chi ci troviamo di fronte, magari scoprendo che non esistono solo malevoli estremisti da combattere ma anche persone come noi, talvolta capaci di cambiare idea. Figurati una vita online in cui una contrapposizione aspra come quella fra Molloy e Grossman finisce con l’insultato che capisce le ragioni dell’insultatore, e l’insultatore che si scusa e ringrazia della comprensione l’insultato, e poi spariscono insieme a braccetto sul calar del sole.
Non sono d’accordo con molto di ciò che scrive Parker Molloy, ma con questo scambio, più prezioso di qualunque thread abbia letto ultimamente, ha conquistato la mia stima e inizierò felicemente a sostenerne la produzione. A puntare il dito sul primo che passa, distorcendo le sue parole e opinioni con screenshot ed espedienti retorici sperando di chiamare due applausi del pubblico, siamo bravi tutti: è letteralmente ciò per cui queste piattaforme sono disegnate, anche se spesso non ce lo ricordiamo. Ma per puntare il dito su se stessi, dicendo «ho sbagliato» e chiedendo scusa – specialmente quando si tratta di cose che sentiamo emotivamente vicine – ci vuole un essere umano propriamente detto.
Un altro mondo – un mondo di gentilezza, bontà, rispetto, empatia – è ancora possibile, anche se un manipolo di miliardari della Silicon Valley rema decisamente in direzione opposta: vale la pena di impegnarsi nel realizzarlo. Dipende da noi, in fondo.
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