Nelle ultime ore è diventato virale, come si dice, un video che mostra tre giovanissime studentesse su un treno diretto a Milano mentre prendono in giro con sottotesti razzisti due persone non inquadrate: il fidanzato di origine cinese di Mahnoor Euceph, influencer e regista statunitense con ascendenze pakistane, e la madre di lui.
Euceph ha documentato l’accaduto – risalente al 16 aprile scorso – con un video da lei girato e pubblicato in questi giorni sul suo profilo TikTok, che in poche ore ha attirato decine di milioni di visualizzazioni, commenti e condivisioni. Nel filmato si vedono le tre ventenni che ridacchiano fra loro ripetendo con tono di voce volontariamente udibile «ni hao», il saluto informale più comune in Cina. A un certo punto una dice all’altra, senza smettere di ridere: «Sore’, mo’ finiamo su Fanpage!».
Nel giro di pochissimo tempo il contenuto è stato ripubblicato ovunque, e diversi utenti hanno identificato le tre protagoniste, che frequentano altrettante note università milanesi. Una, l’Università di Milano Bicocca, mentre scrivo ha ancora il suo profilo Instagram disattivato per via della quantità di commenti indignati che ha ricevuto; un’altra, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato un post in cui spiega che compirà «i dovuti accertamenti su quanto accaduto e sulle relative responsabilità», anche se i fatti si sono svolti su un treno regionale.
Nel frattempo il trio ha disattivato i suoi profili sui social network; almeno una ragazza, a quanto si apprende dai resoconti della vicenda, ha chiesto scusa a Euceph per l’accaduto; la regista ha spiegato di non aver «mai sperimentato un razzismo così palese» prima di allora in vita sua; un razzismo che è proseguito anche dopo che ha deciso di iniziare a filmare, e per cui ha poi auspicato su TikTok che i suoi follower italiani potessero «trovare e fare vergognare» quelle impudenti universitarie.
Cosa che è puntualmente avvenuta, come spesso accade in questi casi: i contatti di massa inviperiti alle università, ai datori di lavoro (due su tre dei quali hanno reagito pubblicando in bella vista post antirazzisti sui loro profili) e ai parenti e amici delle studentesse sono cresciuti esponenzialmente di ora in ora, fino al consueto culmine dello shitstorm: la demonizzazione indiscriminata del reo, costretto a rimuovere ogni traccia di sé dalla rete per placare la sete di giustizia sommaria della folla.
Quel che penso io della vicenda è che le tre hanno vent’anni, sono evidentemente di ingegno non brillante e prive di quell’educazione al rispetto basilare del prossimo che nelle famiglie normali ti insegnano in tenera età, e hanno fatto ricorso al più infantile e francamente idiota degli armamentari xenofobi: il verso al diverso. «Ni hao», sì: pensa, io ho studiato cinese e vissuto in Cina, ammazza che ridere! Niña, Pinta e Santa Maria sono quanto di più lontano da ciò di cui vorrei mai trovarmi a prendere le parti, ecco.
Eppure mi sembra lunare, assurdo, terribile vedere che non a monte della comprensibile indignazione per l’accaduto e della relativa figura di palta internazionale, ma a valle di una gogna di proporzioni smodate – che a chiunque abbia conservato un briciolo di senno appare giusta, proporzionata e motivata quanto l’invasione dell’Iraq del 2003 – messaggi premiati da migliaia di like dicono: «Non mi dispiace». Quando non dicono «godo», si intende. O quando non dicono «non provo nessuna pietà».
E allora ci sarà pur bisogno che qualcuno ve lo ricordi, che il razzismo non si risolve condannando in fretta e furia tre cretine alla damnatio memoriae coi forconi algoritmici, perché le bullette di domani staranno zitte – o, più verosimilmente si scambieranno i «ni hao» con cui darsi colpetti di gomito su WhatsApp – non perché saranno improvvisamente diventate James Baldwin, ma per evitare una cura Lodovico di insulti e minacce.
Ci sarà pure bisogno che qualcuno vi ricordi che per finire in gorghi deleteri e senza fine non c’è nemmeno bisogno di essere scioccamente razzisti o privi di rispetto per gli altri: basta capitare nella tendenza sbagliata al momento sbagliato, postare un messaggio fraintendibile, o addirittura essere presi di mira da un influencer in vena di mazzate. Il nome West Elm Caleb dovrebbe dirvi qualcosa; per rimanere ai classici, il nome Justine Sacco dovrebbe dirvi qualcos’altro. Si gode sempre, finché non puoi più godere perché è successo a te (e no, non sto insinuando che chiunque potrebbe essere ripreso a sfottere una persona di etnia cinese in treno: io non lo farei mai, e spero bene neanche tu).
Non sta a internet «trovare» il colpevole del giorno e innalzarlo a simbolo da ardere su una pira. Non solo perché i procedimenti giudiziali nei consessi civili si fanno altrove, ma anche perché ciò che accade sui social è soltanto un format collaudato, un teatrino con ruoli fissi e nessun reale progresso sociale o di coscienza: c’è chi ha sbagliato e chi è stato offeso, la persona dietro al dito e quella che sta venendo indicata, la scusa preconfezionata e la chiamata in causa in favore di like. Non si impara nulla, non si fanno passi avanti o di lato: l’unico fine dello shitstorm è da ricercare nello shitstorm stesso, come nei reality show che impiegano personaggi-stereotipo per alzare gli ascolti.
Dobbiamo accorgerci del maleficio claustrofobico in cui le multinazionali dell’algoritmo ci hanno imprigionato: la frase «non provo nessuna pietà» non è niente di cui vantarsi, non merita like né orgoglio e sicumera da condivisione corale; è, senza mezzi termini e da sempre, la porta sull’abisso dell’umano.
Non provare pietà per tre innocue deficienti che meritavano soltanto una lavata di capo, anche sonora, e un po’ di educazione al rispetto non fa di te una persona più attenta alle discriminazioni, alleata delle minoranze e di sinistra: ti rende soltanto il servo zelante di un sistema malato, spietato e scientificamente ingegnerizzato in Silicon Valley per far fare sempre più soldi a un pugno di miliardari senza scrupoli.
Il che è persino peggio di un già pessimo «ni hao» dai sottotesti razzisti, se ci pensi.
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