Smash Depp-patriarchy


Tra il 4 aprile e il 16 maggio, il processo per diffamazione in cui Johnny Depp e Amber Heard si sono accusati vicendevolmente di abusi e violenza domestica ha ottenuto più interazioni social per contenuto di qualsiasi altro argomento, dalla guerra in Ucraina all’aborto.

In questa gigantesca pietra d’inciampo dell’inadeguatezza degli algoritmi che è stato il caso Depp-Heard – di cui onestamente a tanti non è importato molto finché non se lo sono trovati ovunque, in una delle conquiste di centralità a mezzo internet più rapide e inarrestabili a memoria di utente – il mondo intero si è sentito in dovere di fare nel contempo da giudice, da giuria e da persona informata sui fatti. Il verdetto favorevole a Depp ha fatto reagire testate, personaggi famosi e professionisti come di fronte a un derby calcistico: perché di un derby, in effetti, si è trattato.

La propaganda e la disinformatjia a mezzo Facebook, Tiktok e Reddit, tradizionalmente destinate a questioni più politiche e con ricadute sulla vita pubblica, negli ultimi mesi si sono concentrate sul dibattimento trasmesso in live streaming da Fairfax, Virginia, e milioni di persone nel mondo l’hanno reso il centro di una guerra per procura: a seconda della fazione d’appartenenza, la serie tv da seguire maniacalmente in tempo reale ha avuto i suoi eroi, i suoi antagonisti spietati e malvagi, la sua estetica e le sue liturgie. La realtà, intanto, spariva da ogni piano di lettura.

I fatti sono noti, ma vanno riepilogati brevemente: Johnny Depp e Amber Heard, star di Hollywood miliardarie la cui vita non somiglierà mai nemmeno lontanamente alla nostra, nel 2016 si sono lasciati – alla fine di un matrimonio durato 15 mesi – dopo che Heard ha avviato le pratiche per il divorzio. Due anni dopo, l’attrice ha pubblicato un famoso op-ed sul Washington Post in cui, senza nominare l’ex marito, si presentava come vittima di violenze domestiche. Depp l’ha denunciata per diffamazione nel 2019, e l’anno seguente lei ha contro-denunciato lui. Eccoci qua.

Se sulla materia del processo si può discutere (per quel poco che mi interessa – e quel poco che interessa a te sapere il mio parere – mi sono fatto l’idea che Depp possa essere stato effettivamente abusato da Heard, o almeno che tra i due la vittima, se così vogliamo chiamarla, sia lui), lo spettacolo d’arte varia che gli è fiorito intorno ha un primo colpevole molto più evidente, e a cui non si applicano le attenuanti generiche: sono le piattaforme social.

Da anni Facebook e Twitter e Reddit prima, e Tiktok e Twitch poi, stendono la loro ala protettiva sulle fandom online delle celebrity, lasciandole cordialmente scannare in nome di quella cosa che di solito chiamiamo engagement, e che per loro si traduce in quell’altra cosa che di solito chiamiamo montagne di denaro. Tiktok, in particolare – dove l’esplosione di contenuti a tema Depp vs. Heard è stata ancora più fragorosa che altrove – è un terreno di coltura perfetto per la fan culture, che può personalizzare e ricondividere senza apparente fine i contenuti adatti a prevalere sui clan avversari: non è un caso che Bytedance stessa l’anno scorso è arrivata a definire le sottoculture «la nuova demografia» di quest’epoca.

Il problema, nel caso Depp-Heard, è che stavolta la piena di fan content ha rotto ogni argine, e la marea di meme, supercut, commenti live, reazioni in diretta e falsi più e meno d’autore ha allagato ogni angolo di internet, producendo a cascata altre polarizzazioni e saldandosi inevitabilmente con la madre di tutte le produzioni di engagement: le guerre culturali. Per qualcuno è stata l’occasione giusta per togliersi sassolini dalla proverbiale scarpa e rendere la vicenda un referendum abrogativo sul #MeToo del 2017; per altri, l’occasione è stata tirare in ballo il #MeToo in senso inverso e preventivo, spiegando che Heard, volente o nolente, è una rappresentante de facto del movimento e il risultato del processo avrebbe inevitabilmente avuto ricadute concrete sulle donne vittime di molestie.

Grande è la confusione sotto il cielo algoritmico: Vice ci ha spiegato che The Daily Wire, un sito conservatore, ha speso decine di migliaia di dollari per promuovere post pro-Depp al suo enorme pubblico su Facebook; senonché poi lo stesso Vice ha accolto il legittimo verdetto della giuria come se fosse a sua volta il portavoce cultuale di una setta amberheardiana (quanto alla grande offensiva della destra, peraltro, il giornalista Ryan Broderick ha scoperto che le carriolate di denaro investite dai trumpiani di The Daily Wire hanno reso ben 400 condivisioni, cioè una miseria. Intanto, a complicare ulteriormente le cose, sul fronte avverso fioccavano anche liste di proscrizione virali).

In Italia, il settimanale Grazia ha accolto a sua volta la sentenza mettendosi le mani nel capelli come un cosplayer deluso, e definendola «una sciagura per tutte le vittime di violenza domestica che denunciano».

Non credo affatto, per quel che mi riguarda, che «tutte le vittime di violenza domestica» abbiano troppo da spartire con due milionari che sono stati passati al setaccio, memizzati e resi indistinguibili dai personaggi che interpretano sul set. Ma nel caso in cui ce l’avessero, questo processo sarebbe una sciagura perché le molestie, sul ring delle piattaforme social, sono apparse soltanto come sotto-plot, senza mai essere davvero il centro di un discorso analitico e sensato. A indirizzare le coscienze – si fa per dire – sono stati streamer vestiti da Capitano Jack Sparrow de I Pirati dei caraibi o influencer “inclusivi” lesti a far like spiegando che un verdetto favorevole a Depp avrebbe ucciso il #MeToo.

Se ci teniamo a dire che le “guerre culturali” sono state il vero centro nevralgico del processo Depp-Heard e come è percolato nei nostri feed, dobbiamo farlo in modo coerente: e quindi considerare, ad esempio, che l’intera strategia difensiva dei legali di Heard ha poggiato dall’inizio sul Primo emendamento, quello che tutela la libertà di espressione tanto cara agli Elon Musk di quest’epoca: l’attrice – l’ha ribadito lei stessa anche nel suo commento alla sentenza – aveva un diritto costituzionalmente garantito a esprimersi sulla questione degli abusi sessuali nel 2018, a suo dire, per cui le accuse mosse da Depp sarebbero state da scartare a priori. Camille Vasquez, la legale di Depp, sostiene invece che anche la libertà di espressione deve avere dei limiti (does this ring a bell?).

È bene notare che l’intero processo era imperniato sulla diffamazione e sulla freedom of speech, non sui particolari più e meno grotteschi delle violenze e angherie intercorse fra la coppia: mentre social media e giornali parlavano della falange mancante di una star e di presunti grandi attacchi organizzati per disarcionare il femminismo, il giudice e i giurati si occupavano di cosa si può o non si può legalmente dire senza incappare in una condanna. Ovvero di un tema più vicino agli allevatori di coccodrilli del Texas che agli opinionisti delle caffetterie del Queens.

Eppure, rimanendo nell’ambito della mediatizzazione malsana dell’evento, persino questo epico scontro fra celebrity ci avrebbe potuto insegnare qualcosa: che le molestie che nascono e crescono nell’ambiente domestico sono un fatto serio, che ha bisogno di segnalazioni sicure e un’attenzione sociale più presente ed evoluta; che anche un uomo può caderne vittima, e che non per questo non dovrebbe volerne parlare (a scanso di equivoci: sì, il 90% dei casi continuerà a riguardare donne); che anche un movimento di giustizia sociale giusto e importante può trovarsi, suo malgrado, tirato in mezzo per equivoco o per calcolo.

Il «cry counter» dello streamer xQc

Però no, ecco: abbiamo preferito fare le dirette Twitch che contavano le lacrime di Amber Heard, dipinta non come un’eventuale molestatrice o moglie abusante, ma come una strega premoderna da demonizzare e umiliare.

Quando ti diranno che i social network sono intrinsecamente progressisti, perché hanno permesso alle minoranze oppresse di avere voce in capitolo – il famoso passaggio di microfono – tieni a mente che per tre mesi nel 2022 i fan di Johnny Depp hanno colonizzato il web intero, oscurando quasi del tutto una guerra in Europa e una crociata contro l’aborto condotta dalle massime istituzioni statunitensi.

Ho concluso, Vostro onore.

Altre news dal fronte

Ted Sarandos Talks About That Stock Drop, Backing Dave Chappelle, and Hollywood Schadenfreude
The Netflix executive says he — and the company he helped build — will survive a bout of bad earnings numbers.
  • Una gran bella intervista di Maureen Dowd all’amministratore delegato di Netflix Ted Sarandos, che tra le altre cose parla di quando, durante un evento di Netflix, il comico Dave Chappelle è stato aggredito sul palco da un uomo che si era sentito «triggered» (ah, il vocabolario del 2022) dalle sue battute a tema Lgbtq+. Sarandos aveva risposto diffondendo una circolare sulla cultura aziendale, che tra le altre cose diceva al dipendente: «Se trovi difficile supportare la nostra ampiezza di contenuti, Netflix potrebbe non essere il posto migliore per te». Per qualche ora l’ad era diventato un eroe conservatore, dato che – prevedibilmente – la stampa di destra ci aveva visto una stoccata alla wokeness di Netflix. Dowd chiede a Sarandos come si è sentito in quei giorni, nei panni di un eroe para-trumpiano. E lui:
Una volta questa era una questione molto cara alla sinistra, per cui viviamo tempi interessanti. Ho sempre detto che se censuriamo negli Stati Uniti, come facciamo a difendere i nostri contenuti nel Medio Oriente?
  • Questa è una vignetta particolarmente sciocchina, e ciononostante (anzi, forse proprio per questo) diffusissima negli ultimi anni. Ti spiegano il perché qui:
Sconcerta vedere sedicenti persone di sinistra che difendono questa “cultura delle conseguenze”. Perché qualcuno, anche solo vagamente di sinistra, dovrebbe voler sostenere una cultura in cui i lavoratori licenziati sulla base di ciò che pensano sono visti come un risultato giusto? Significa dare un enorme potere ai datori di lavoro. E andando oltre i rapporti di lavoro, chi trarrà vantaggio dall'impostare la censura sociale come principio? I ricchi e potenti, o i poveri e inermi?
  • Scusami, ma io questo repubblicano dell’Ohio convinto che il vero responsabile delle stragi con armi da fuoco sia il porno te lo segnalo;
  • Giugno è il Pride Month – il mese in cui i brand cambiano le immagini del profilo coi colori arcobaleno per dimostrarsi inclusivi – e i Marines hanno postato l’immagine che vedi qui sopra. La destra ha reagito dando in escandescenze, in un modo che se non fosse grottesco sarebbe quasi comico. Tra le tante risposte del tweet, che ti lascio scoprire, ho amato questa:
📧
Per informazioni, recriminazioni, segnalazioni: newsletter@culturewars.it
Evviva! Hai completato l’iscrizione a Culture Wars. La correzione del mondo
Daje! Ora dai un’occhiata e considera di passare alla versione premium.
Errore! Iscrizione impossibile a causa di un link non valido.
Bentornato/a! Login effettuato.
Errore! Login non andato a buon fine. Per favore, riprova.
Evvai! Ora il tuo account è attivo, hai accesso a tutti i contenuti.
Errore col checkout via Stripe.
Bene! Le tue info di fatturazione sono state aggiornate.
Errore! Le tue info di fatturazione non sono state aggiornate.