Guerre di metà mandato


Negli Stati Uniti si contano ancora i voti delle elezioni di Midterm, così chiamate perché arrivano alla metà esatta del term del presidente in carica. Riassunto veloce, per chi magari non mastica molta politica americana: si temeva che per i Democratici – complici l’alta inflazione e un presidente attualmente non popolarissimo: due terzi degli elettori non vogliono che Joe Biden si ricandidi, anche se lui al momento pare fregarsene – potesse andare molto male, ma la cosiddetta onda rossa (cioè il trionfo dei Repubblicani) non c’è stata.

Il nuovo assetto del Congresso non sarà chiaro ancora per settimane: al Senato – dove attualmente la composizione è divisa in uno stallo di 50 senatori Democratici e 50 Repubblicani – la partita si deciderà in Nevada, Arizona e Georgia, Stati dove i contendenti sono vicinissimi, mentre alla Camera i Repubblicani dovrebbero strappare una ristretta maggioranza, dopo aver ottenuto buonissimi risultati in Florida e nello Stato di New York.

Perché parliamo di elezioni in una newsletter che si chiama Culture Wars? Ah, è semplice: perché è stata la tornata elettorale più improntata alle guerre culturali dei tempi recenti, e una a cui dobbiamo guardare per capire come si strutturerà la politica americana (e, di riflesso, internazionale) nei prossimi tempi.

Per cominciare, il personaggio della destra statunitense uscito più rafforzato dalle Midterm si chiama Ron DeSantis, è stato largamente rieletto governatore della Florida, come il nome tradisce ha origini italiane, e soprattutto pesca a piene mani dal repertorio delle culture wars: voglio dire, è il politico che ha coniato una legge ribattezzata nientemeno che Stop Woke Act, che da luglio proibisce l’insegnamento di ciò che, con una definizione volutamente fumosa e fuorviante, definisce critical race theory: di per sé il termine indicherebbe un insieme di teorie accademiche post-moderniste volte a decostruire la matrice razzista che si ritiene annidata in molti aspetti della vita sociale americana, ma la legge si estende a prendere di mira qualsiasi tentativo di educare alla diversità e alla storia dell’antirazzismo.

Non solo: DeSantis – il quale verosimilmente si candiderà alle elezioni per la Casa Bianca del 2024; e Donald Trump temendo il suo consenso l’ha già minacciato, consigliandogli di non farlo – si è ripetutamente opposto al parere delle autorità sanitarie durante la pandemia di Covid-19, firmando leggi contro l’obbligo di vaccinazione dei lavoratori e mettendo in dubbio l’efficacia dei vaccini (scelte che, purtroppo, hanno pagato); si è fatto promotore della legge cosiddetta Don’t Say Gay, che proibisce e limita la discussione di temi che hanno a che fare con l’identità di genere e l’orientamento sessuale nelle scuole della Florida; si è persino avventurato in un lungo contenzioso con Disney World, l’enorme parco divertimenti della zona di Orlando, dopo che la società di intrattenimento aveva criticato pubblicamente il suo operato: DeSantis gli ha tolto i benefit fiscali di cui godeva; in uno spot elettorale del 2018 insegnava alla figlioletta di pochi anni a «costruire il muro» coi mattoncini per bambini.

Ma DeSantis non è l’unico tema riconducibile al filone degli scontri culturali – né, in realtà, il primo. Sì, ci sarebbe il candidato dell’Ohio al Congresso che ha dichiarato i suoi pronomi inclusivi: «Patriot» e «ass-kicker». Ma questo è folklore: al centro della contesa, in moltissimi Stati, c’è stato l’aborto, che dopo la storica e preoccupante sentenza della Corte suprema che ha smantellato Roe vs. Wade, l’architrave del diritto all’interruzione di gravidanza in America, è diventato un problema centrale. Ora, personalmente mi sento un po’ a disagio nel mettere un tema che riguarda la salute e il corpo delle donne nelle culture wars, ma è indubbio che ha avuto un grande peso: in tre Stati – California, Vermont e Michigan – gli elettori oltre che per il Congresso hanno votato per l’inserimento del diritto all’aborto nelle rispettive costituzioni, e il New York Times ha scritto che le campagne dei Democratici incentrate sul diritto ad abortire hanno avuto successo, portando la sinistra a raccogliere più voti di quelli immaginati dalle previsioni.

C’è stato, poi, un grande dato inerente al voto generazionale: il 63% dei voti per la Camera dei rappresentanti della fascia d’età 18-29 anni è andato ai Democratici (contro il 35% ai Repubblicani), mentre il 70% dei loro coetanei in Pennsylvania ha portato al Senato John Fetterman, in una delle corse più in bilico e importanti di queste elezioni. Numeri ancora più interessanti, se si considera che quella dei più giovani è risultata l’unica fascia d’età a preferire la sinistra alla destra.

Le questioni che ruotano attorno alle preoccupazioni dei genitori per l’insegnamento (o alla resa propagandistica che ne fanno i Repubblicani), all’identità di genere nelle scuole e ai trattamenti medici per i minorenni transgender, anche se meno visibili, hanno dato forma in profondità a queste elezioni. E, a meno di grandi sorprese, rimarranno sul tavolo anche nei prossimi due anni, quelli che ci porteranno a conoscere il nome del 47esimo presidente degli Stati Uniti.

Altre news dal fronte

  • Pare che a breve inizierà la nuova stagione di Pechino Express, il reality di Sky in cui alcune coppie devono cimentarsi con prove vattelapesca durante pittoreschi viaggi on the road. Tra gli altri partecipanti ci sono Giorgia Soleri e Federica Fabrizio, ribattezzate «Le Attiviste» e così reclamizzate all’audience. Ora: nulla di personale, ma l’attivismo, per come lo si è inteso fino all’altro ieri, prevedeva il difendere una causa in modo disinteressato, anche contro i propri interessi; se ora, con un salto semantico notevole, diventa brandire cause selezionate da team di ricerca marketing, oggetto di contratti di sponsorizzazione e filtrate da agenzie, talent e consulenti d’immagine, bisognerà capire se più che attivismo non sia forse una nuova incarnazione del caro vecchio capitalismo;
  • Torniamo un attimo all’America e ai distretti elettorali, anche se questa è una notizia i cui effetti vanno molto oltre le urne: per la prima volta la maggior parte degli statunitensi vive in quartieri dalle composizioni etniche e razziali miste;
  • «I social media non sono mai stati un modo naturale di lavorare, giocare e socializzare, anche se sono diventati una cosa che ci viene naturale». E se – tra Twitter che smatta col suo capo e Facebook che licenzia e incassa il flop del metaverso – ci trovassimo di fronte alla fine di quelle piattaforme digitali che ci hanno rovinato la vita? Pezzo monumentale per capire dove siamo arrivati, e che strada si può prendere da qui.

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