Sparlarne fra nemici


🗣️
Questa puntata di Culture Wars è gratuita e aperta a tutti. Se ti piace, considera di unirti agli abbonati: Scopri i piani membership.

Su ampie porzioni del web italiano ha tenuto banco per giorni una vicenda che coinvolge una personalità nota su Instagram, Serena Mazzini (in arte Serena Doe), che negli ultimi anni si è ritagliata un ruolo di primo piano nella critica continuativa ad alcune dinamiche connaturate ai social media, a cominciare da una certa incarnazione dell’influencing.

Il filo si può riavvolgere sino a una storia postata dall’attivista Valeria Fonte: secondo un gruppo di accusatori di cui Fonte fa parte, Mazzini avrebbe avuto un gruppo privato su Telegram in cui 70 suoi «adepti», ha scritto Fonte, erano soliti condividere post, chat e foto di noti influencer e attivisti, screenshottate dai loro post pubblici o anche, «senza consenso», dalle storie Instagram «per amici stretti».

La questione si è ingigantita quasi subito, ed è stata ripresa da altri profili molto seguiti dell’Instagram militante italiano, a partire da quello di Carlotta Vagnoli. Mazzini, dopo qualche giorno, ha postato una lunga risposta in cui ha parlato del suo rapporto con questo spazio su Telegram – definito «un gruppo di persone che si vogliono bene» – di chi lo gestiva, di quello che a suo dire è stato un ingigantimento di polemiche basate su pochi atti di sostanza effettivamente discutibile.

Confermo l’esistenza di un gruppo Telegram composto da poche persone praticamente tutte amiche: uno spazio di confronto e conforto in cui tra i topic principali c’erano foto dei nostri animali, le ricette, spazi dedicati agli sfoghi personali o alle relazioni.

Mazzini ha scritto che «c’era anche una sezione dedicata a influencer e sharenting dove si commentava quello che succede sui social», il luogo dei presunti misfatti denunciati dai suoi accusatori e poi finiti in un vortice di storie, post e accuse reciproche.

Di norma, arrivato a questo punto chi si trova al di fuori delle bolle digitali piccole o grandi sta facendo spallucce: qual è il tema, qui? Di cosa stiamo parlando? Detto che sulla vicenda e i suoi aspetti più fumosi paiono gravare contenziosi anche legali, a mio modo di vedere stiamo parlando di una disputa personale caricata di sovrastrutture per camuffarla da ciò che non è.

Mi spiego meglio: visto da fuori, e al netto di ulteriori evoluzioni della vicenda, il redde rationem dell’attivismo virale su Instagram sembra più che altro un togliersi sassolini dalle scarpe mosso da antipatia personale. Qualcuno, come Vagnoli, ha sottolineato che quanto sarebbe accaduto nella chat di Telegram – eliminata un mese prima che la sua esistenza diventasse di dominio pubblico, ha spiegato Mazzini, e dove gli screenshot erano disattivati – è la pistola fumante di un problema sistemico.

Qualcun altro, come la ricercatrice sulla violenza di genere online Silvia Semenzin – non si sa se apparsa o meno nel gruppo – ha ricollegato l’accaduto a un torto privato patito sei anni fa per mano di Selvaggia Lucarelli (qui il testo dell’intervento di Semenzin), di cui Mazzini è una stretta collaboratrice, invitando a «un callout pubblico e che sia duraturo». Ma cosa c’entra ciò che Selvaggia Lucarelli avrebbe fatto nel 2018 con quel che Mazzini ha – forse – fatto nel 2024? C’entra, si legge, «perché qui stiamo parlando di personaggi che si sono fatti grande spazio nell'opinione pubblica».

Certo, è vero. E permettimi di dire che non ho mai provato particolare simpatia per i metodi di Selvaggia Lucarelli (cito soltanto il recente caso della ristoratrice Giovanna Pedretti). Non ne apprezzo la veemenza, l’attitudine alla messa alla gogna, le battaglie ad personam. A Serena Mazzini si può rimproverare di aver, in una certa misura, ceduto alle dinamiche social che sottopone a critica da anni, esasperando i toni e prestando il fianco alla personalizzazione.

Ma a farsi «grande spazio nell’opinione pubblica» negli ultimi tempi sono stati anche quelli e quelle che hanno alimentato la polemica imperniata su Serena Doe. E se non posso sapere cosa sia stato postato sul famigerato gruppo Telegram al centro della storia, so bene che di gruppi in cui si sparla di “nemici” social ne abbiamo tutti.

Magari non arrivano a 70 persone, sì; ma ripostare storie, tweet e status di quel/la tizio/a che abbiamo preso in avversione con altri 69 utenti è revenge porn da incel, mentre condividerle con altri 8, 10 o 15 può essere derubricato a ordinaria amministrazione? Onestamente no, non credo (senza contare che c’è chi bersaglia ossessivamente i suoi antagonisti algoritmici anche in pubblico, con danni esponenzialmente maggiori).

Lo dico anche perché molte persone che si sono sentite legittimate ad arrabbiarsi per questa vicenda non considerano che la chiave di volta della loro attività sui social spesso poggia proprio su ciò verso cui puntano il dito: mettere in pasto altre persone – non di rado prive dei codici, dell’appartenenza di ceto o dei numeri di pubblico con cui potersi difendere – allo spirito di corpo di chi è parte dello stesso gruppo o camera dell’eco, esponendole a una walk of shame fatta di post e reactions da colpetto di gomito.

Certo, condividere materiale privato – peggio se di natura intima – è tutta un’altra storia (e su quest’accusa si pronunceranno i diretti protagonisti del caso, magari). Ma per quanto riguarda il nucleo delle contestazioni che ho letto, direi che la «decostruzione transfemminista» c’entra poco: se Serena Mazzini ha fatto parte di un gruppo Telegram privato con accesso a invito in cui qualche decina di contatti si scambiavano battutine sui loro bersagli di riferimento, ha partecipato a una prassi che le piattaforme digitali hanno reso la norma accettata da almeno un decennio. Il «call-out duraturo» facciamolo a Mark Zuckerberg, magari.

Non è mia intenzione difenderla – l’ha fatto e, immagino, lo farà da sola – e chi obietta che da una persona che studia le derive digitali ci si deve aspettare di più ha molte ragioni. Ma mi piacerebbe che pensassimo tutti all’ultima volta in cui ci siamo fermati a riflettere prima di esporre – in pubblico o in privato – malcapitati che percepiamo come lontani da noi. Io stesso ho iniziato a farlo in tempi dolorosamente recenti, e ancora non mi riesce sempre bene.

Fedez – che di Mazzini è un noto avversario da tempo – se non altro è stato onesto: a scandalo scoppiato, ha postato soltanto un pezzo di una sua canzone che parla di sedersi lungo un fiume e aspettare di veder passare il proverbiale cadavere del nemico.

Tutto sommato, l’ho trovato più genuino di cercare di ammantare a tutti i costi beghe e questioni personali di significati ultimi per il destino della società: uno spostamento semantico che accade ogni giorno sui social, per precisa scelta di chi li ha disegnati in questa forma. È meglio tenerlo a mente in vista della prossima faida su Instagram.

Altre news dal fronte

  • Il chirurgo generale degli Stati Uniti d’America (che no, non è un chirurgo di mestiere, ma la figura istituzionale che si occupa di salute pubblica all’interno del governo di Washington) vuole un warning label per i social, causa primaria di un’«emergenza» salute mentale fra gli adolescenti.

Evviva! Hai completato l’iscrizione a Culture Wars. La correzione del mondo
Daje! Ora dai un’occhiata e considera di passare alla versione premium.
Errore! Iscrizione impossibile a causa di un link non valido.
Bentornato/a! Login effettuato.
Errore! Login non andato a buon fine. Per favore, riprova.
Evvai! Ora il tuo account è attivo, hai accesso a tutti i contenuti.
Errore col checkout via Stripe.
Bene! Le tue info di fatturazione sono state aggiornate.
Errore! Le tue info di fatturazione non sono state aggiornate.