Il 16 settembre Mahsa Amini, una ragazza curda iraniana di 22 anni, è morta in custodia delle forze dell’ordine in una caserma di Teheran dopo essere stata fermata dalla polizia della moralità – il corpo scelto che dal 2005 in Iran controlla che le donne indossino l’hijab – perché non portava il velo come richiesto dai codici religiosi del regime.
La morte di Amini ha generato alcune delle proteste maggiori viste negli ultimi anni in Iran, un Paese che non è nuovo alle manifestazioni di piazza che orbitano attorno a istanze politiche, sociali ed economiche (ce ne sono state di molto partecipate nel 2017 e nel 2019, senza andare troppo indietro nel tempo). La grande novità, tuttavia, risiede nel fatto che queste proteste sono partecipate e sostenute da una fascia di popolazione che finora non si era compattata in maniera così evidente ed efficace: le giovani donne della Generazione Z.
Quella che sta scuotendo l’Iran è la rivoluzione delle ragazze: sono loro che stanno scattando foto in cui non indossano il velo o fanno gesti ai ritratti delle massime autorità civili e religiose iraniane nelle scuole; sono loro che stanno scendendo per le strade da tre settimane, esponendosi alla violenza della polizia (secondo Iran Human Rights, una ong per i diritti umani con sede in Norvegia, le forze del regime hanno già causato la morte di 154 manifestanti) e chiedendo a gran voce il supporto internazionale sui social network.
Secondo Nameh News, un network conservatore iraniano, il regime non è pronto a reagire a queste giovani donne: «Il governo iraniano non può né sopprimere completamente questa nuova generazione, né ignorarla», ha scritto il suo direttore Mosrtafa Sadeghi, per poi aggiungere:
Non sono né di sinistra né di destra. Sono ribelli. Sono le figlie e i figli dei social media che hanno organizzato una ribellione contro i decisori del Paese e i media tradizionali di cui non si fidano più. [...] Seguono uno stile di vita diverso, passano il tempo nei caffè e fanno lunghe passeggiate con le amiche mentre discutono di questioni culturali. Allo stesso tempo, vogliono sapere perché sono state imposte così tante restrizioni su di loro.
Da più parti (menzione speciale per un tweet del partito italiano che ha organizzato un’intera campagna elettorale attorno allo slogan «Pronti», poi ha vinto le elezioni e si è scoperto che non aveva su nemmeno i calzini), nella più classica tradizione del gnè gnè all’avversario socialmediale, sono state invocate «le femministe nostrane» («come mai per questo non vi indignate?», ha scritto polemicamente proprio il profilo di Fratelli d’Italia).
A dire il vero, di manifestazioni delle «femministe nostrane» per le ragazze e donne iraniane in Italia ce ne sono state eccome: le hanno organizzate Non una di meno e altri collettivi femministi, in grandi città come Roma e Bologna. Se invece quel che si vuol notare – diversamente dal pigro tentativo propagandistico di FdI – è che queste manifestazioni potevano essere più ampie e partecipate, beh: parliamone.
Che la sinistra di ogni latitudine sia troppo lesta a premere il pulsante dell’accusa di islamofobia, o ad autocensurarsi temendo che qualcuno lo prema per lei, è difficile da negare. L’attivista iraniano-americana per i diritti delle donne Masih Alinejad di recente si è lamentata pubblicamente proprio del mancato supporto occidentale alle sue lotte progressiste in Medio Oriente: «In Iran mi è stato detto che se critico l'Islam verrò uccisa, incarcerata, frustata, cacciata dal Paese», ha scritto Alinejad, «in occidente mi è stato detto che condividere la mia storia causerà islamofobia. La fobia però è una paura irrazionale: la mia paura degli islamisti è razionale».
L’anno scorso, quando la 23enne di Vimercate (provincia di Monza e Brianza) Ikram Nazih è stata arrestata a Casablanca, in Marocco – dove si trovava in vacanza con la sua famiglia – per una vignetta «blasfema» che aveva pubblicato per pochi minuti su Facebook due anni prima, la vicenda è passata a lungo sotto silenzio. E a notarlo sono state due firme col pedigree progressista ben lontane da qualsiasi sospetto di islamofobia, quali Giuliana Sgrena e Luigi Manconi. Senza contare le diverse reazioni paradossali (o l’assenza di reazioni, in alcuni casi) a cui abbiamo assistito con la terribile vicenda di Saman Abbas, la giovane di origine pakistana che sempre l’anno scorso a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, è stata uccisa dalla sua famiglia per aver rifiutato un matrimonio combinato.
Probabilmente, come spesso gli capita, ha ragione Adriano Sofri quando scrive che:
L'occidente migliore è fuori dall'occidente. Nelle giovani iraniane che liberano i capelli e vengono assassinate per questo. L'Europa migliore è fuori dall'Europa. Nei giovani ucraini che ne sventolano la bandiera. O in una giovane pakistana che le è arrivata dentro e viene assassinata dai suoi - i suoi... Per capire chi siamo, o almeno chi non siamo, chi non siamo più, bisogna guardare a chi non è ancora come noi, e immagina che noi siamo come lei ci immagina.
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