A mo’ di disclaimer: Francesco Costa per me è una vecchia conoscenza: non solo perché lo leggo dai tempi del suo primo blog, ma perché Francesco è stato anche il giornalista che, dodici o tredici anni fa, mi ha insegnato i fondamenti di questo mestiere (e, soprattutto, ha saputo trasmettermi la passione che ci vuole per svolgerlo in un certo modo). Come si dice in questi casi: gli devo molto.
Ma di questo a te interesserà relativamente: più importante è dire che di Francesco, che nel frattempo è diventato un nome affermato del giornalismo nazionale e gode di un meritato successo, è appena uscito l’ultimo libro, Frontiera (Mondadori), un affresco a più tinte degli Stati Uniti d’America e le loro questioni aperte.
Era l’occasione giusta per scambiare due parole e fargli qualche domanda su quel Paese al di là dell’oceano Atlantico che influenza – e influenzerà – così tanto la nostra vita quotidiana, su quello che ha messo nel libro e su quel che è rimasto fuori: ed eccoci qua.
⪢ Nelle interviste ad autori e autrici c’è chi è pregiudizialmente contro il momento “raccontami il tuo libro”; a me invece piace sempre, devo dire («so sue me», direbbe il Michael Scott di The Office): cosa hai messo in Frontiera, a chi si rivolge e perché – cito dall’introduzione – è un saggio «frastagliato e non lineare»?
Perché è un libro di frammenti. È diviso in cinque parti ma ogni parte non è un discorso che va da A a B, un capitolo che inizia e finisce e ti ha raccontato una cosa. Perché niente nella realtà ha questa forma, mi sono detto. Niente si può raccontare con un discorso che inizia e finisce. Ogni fenomeno ha cento cause diverse che vediamo e altre cento che non vediamo, e si lega ad altri fenomeni ognuno con le sue duecento ragioni che riguardano magari altri settori, altre persone o cose avvenute un secolo fa. Ho provato a riprodurre con la scrittura la stessa modalità – frastagliata e non lineare, appunto – con cui facciamo esperienza della realtà, dato che lo scopo del libro è raccontare la realtà. Credo che anche per questo motivo non sia facilissimo per me pitchare questo libro. Sai quella cosa «convincimi a comprarlo nel tempo di un viaggio in ascensore»? Ogni volta che ne parlo lo faccio in un modo diverso.
Ma è un libro che ha l’ambizione di raccontare come pensano gli americani. Come ragionano. Come guardano a se stessi e al mondo. E sulla base di questo, argomenta che gli americani restino i migliori a giocare al gioco del capitalismo, per quanto le regole del capitalismo possano farci orrore; e dato che non si vedono regole nuove all’orizzonte, che anche questo secolo sarà un secolo americano. Che non vuol dire che andrà tutto bene, naturalmente. Qualcuno potrebbe cominciare a scrivere pitchare, per esempio.
⪢ E d’altronde l’ultima volta che ci siamo ripetuti «ne usciremo migliori», si potrebbe obiettare, non è andata poi così bene. Ma tornando al libro: uno dei frammenti è titolato con un termine di cui da queste parti ci occupiamo spesso, «Identità». I lettori ci troveranno Ibram X. Kendi, teenager “cancellati“, J.D. Vance, il caso Bud Light e un atlante preciso del «nevroticismo» (cito) che orbita attorno alle cosiddette guerre culturali, negli Stati Uniti e non solo. Due domande in una: qualcosa trapela da Frontiera e riassumerla in breve non è cosa facile, ma che idea ti sei fatto del bailamme delle questioni identitarie? E quanto peso pensi che avrà nel risultato di novembre? (Si potrebbe dire che il fu candidato più pervicacemente anti-woke à la Twitter, Ron DeSantis, non ha toccato palla: poi però c’è Trump).
Non ho una idea sulle questioni identitarie, negli Stati Uniti ma non solo. Ne ho molte, diverse, a volte in contraddizione, spesso in evoluzione. Spesso sono scoraggiato dalla povertà del dibattito. L’idea che risposte e soluzioni siano semplici, o che si possa mettere ogni cosa in un solo grande cassetto e dire “tutto bene” o “tutto male”, va bene per i talk show. Penso anche che il mestiere del giornalismo attorno a questi temi dovrebbe essere discuterne più che litigarne. Indagare più che schierarsi, cercando di essere utili, di sottrarci ai riflessi condizionati. Nel libro ci provo, e per questo mi soffermo più sulle storie che sulle grandi parole, politicamente corretto, woke, cancel culture, eccetera. Per capire da dove vengono e come toccano le vite delle persone.
È difficile dire che peso avranno questi temi alle elezioni. Sono fenomeni che scuotono la società dal basso molto più che dall’alto. La politica li subisce più di quanto sembri. Le questioni identitarie appassionano gli americani ma i politici sono il pezzo meno interessante della storia. Inoltre le leggi statali coprono un sacco di temi – scuola, sanità, ordine pubblico, sport universitari… – che sono quindi parzialmente sottratti al dibattito delle presidenziali. La mia sensazione è che oggi le battaglie sui temi culturali ti possano aiutare a diventare qualcuno fra le persone ipercoinvolte, principalmente sui social media, e di conseguenza sulla stampa. Ma non ci puoi diventare presidente.
⪢ Chiarissimo (e totale sintonia sullo scrivere libri – o newsletter! – per provare a sottrarsi da quei riflessi condizionati). Mentre parliamo, buona parte dell’X – si dice, «dell’X»? Altrimenti: «del Twitter» – americano sta litigando su fatti di quattro anni fa: Adam Rubenstein nel 2020, da redattore del New York Times, ha editato un famoso (o famigerato) op-ed del senatore Tom Cotton, quello del «Send In the Troops» in risposta alle proteste più radicali del movimento Black Lives Matter. Rubenstein ha raccontato sull’Atlantic di essere stato messo in disparte – e addirittura ripreso dalle risorse umane dell’azienda – per le sue posizioni moderate-conservatrici, finendo a fare da capro espiatorio per le critiche attirate dalla pubblicazione del pezzo. La sinistra, scusa il termine, woke, gli dà del bugiardo. È quella che ultimamente aveva impiegato le sue energie per bersagliare una serie di tweet pro-Palestina sull’allenare il fisico forse abilisti, proprio mentre nelle bolle adiacenti, a destra, si cercava di vederci più chiaro su Taylor Swift, nota agente del Deep State pro-Biden. Nell’introduzione di Frontiera descrivi «un Paese lontano [...] dalla litigiosità della politica e dalla polemica perpetua dei social media». Ponendo che anche quello che scorgiamo sulle piattaforme sia un Paese: i due paesi, online e offline, avrebbero ancora qualcosa da dirsi? E che ne sarà di questo divario nei prossimi anni, secondo te?
Il Paese online e quello offline, dici? Va’ a sapere. Ovviamente la realtà è una sola. E mi sembra molto evidente che gli incentivi creati dai social media ci portino a interpretare online la versione peggiore di noi, in assoluto la più stupida, istintiva, aggressiva, polemica ed egoriferita. È vero che quella versione spesso tracima nella vita vera. Ma non prenderei a esempio della situazione generale un editor del New York Times o qualcuno che scrive su Twitter che bisogna andare in palestra per fare la rivoluzione e qualcun altro che pensa che il primo problema di quella frase sia il suo “abilismo”, per fortuna. Nessun posto di lavoro al mondo è uguale al New York Times e quando dici qualcosa e hai davanti qualcuno, invece che uno schermo, le interazioni cambiano. La maggior parte delle persone – fuori dai college, certo, e in generale tra chi non passa quattordici ore al giorno attaccato a uno schermo – davanti a episodi come questi scuote la testa o gira gli occhi in alto. Siamo diventati tutti molto più scemi, è indubbio, giriamo nella ruota dell’indignazione perpetua come criceti e lasciamo che un algoritmo costruito per farci comprare un profumo decida la nostra gerarchia delle notizie. Ma non siamo tutti scemi quanto il protagonista del giorno su Twitter, per fortuna. Le persone che osservano una shitstorm e pensano tra sé e sé “che stronzi, che imbecilli” sono fortunatamente ancora parecchie di più di quelle che partecipano a una shitstorm. Solo che per ovvie ragioni sentiamo solo le seconde. Forse questa cosa cambierà, in parte mi pare stia già succedendo. Ma non nel senso che gli insulti degli stronzi saranno coperti da una maggior quantità di insulti dei presunti “buoni”. Semplicemente daremo meno peso a quello che ha scritto un tizio che si annoiava sul divano.
⪢ Domanda secca: c’è qualcosa che, da italiani (o diciamo pure: da non-americani) non abbiamo ancora capito di Donald Trump? Come fa a essere il candidato “da battere” a marzo del 2024? (E già che ci siamo, anche se la famosa sfera di cristallo non ce l’ha nessuno: alla fine secondo te sarà battuto?).
Moltissime. Per esempio: in economia Trump ha vinto primarie e presidenziali del 2016 spostandosi al centro rispetto al suo partito, non a destra. Prima di lui i Repubblicani avevano un’agenda economica ultra-liberista: grossi tagli alle tasse da ripagare tagliando pensioni, sanità, servizi. Romney fu fatto a fette da Obama proprio su questo. Trump non ha mai sostenuto né fatto nulla del genere. Il tutto mentre i Democratici invece si spostavano a sinistra: Biden sta governando da sinistra rispetto alle posizioni di Hillary Clinton, che a sua volta aveva un programma ben più di sinistra di quello di Obama.
Un’altra cosa che qui non vediamo è quanto siano normali le persone che votano Trump. È normale che il tipo col cappello con le corna faccia più notizia degli altri, e ai comizi di Trump partecipano soprattutto i più motivati e talvolta sciroccati, ma alle primarie dei Repubblicani in Iowa ha partecipato un settimo degli elettori che votano i Repubblicani alle elezioni. Non sono quelli che votano alle primarie, “gli elettori di Trump”. Quella è la sua base, piccola e rumorosa. La grandissima parte delle persone che votano Trump non sono più stronze o razziste della media, non odiano nessuno, vedono i suoi limiti. Vorrebbero tasse più basse e più poteri per il loro stato che per il governo federale; o vorrebbero decidere quando comprare un’auto elettrica o le piastre a induzione senza che li costringa la legge. Possono avere torto, ma hanno idee normalissime che esistono in ogni Paese del mondo. Preferirebbero votare un politico conservatore che non fosse Trump, ma lo votano turandosi il naso come sicuramente sarà capitato anche a me e a te almeno una volta nella vita di votare per qualcuno che non ci piaceva perché quegli altri erano peggio.
Le presidenziali vengono spesso decise da poche migliaia di voti. Chiunque oggi avanzi pronostici su un’elezione che si terrà fra otto mesi sta tirando a indovinare, o ha scelto una posizione che gli sembra utile assumere. Però la risposta alla tua ultima domanda dipenderà molto da quante persone conservatrici decideranno di turarsi il naso ancora una volta. Anche perché l’esperienza politica di Trump è l’esperienza di un perdente: dopo aver vinto per il rotto della cuffia nel 2016, pur prendendo tre milioni di voti in meno di Clinton, Trump e i suoi hanno perso nel 2018, nel 2020 e nel 2022. A giudicare dai risultati delle primarie, il consenso di Trump non è per niente solido, fuori da quel 20-25 per cento di americani che lo amano visceralmente. Ma le presidenziali sono una questione binaria, ogni guaio dell’uno avvantaggia l’altro: magari Biden inciamperà in diretta durante un confronto tv e tutte le nostre analisi andranno a farsi benedire.
⪢ Nel capitolo finale di Frontiera, che ha lo stesso titolo del libro, scrivi: «Il fatto che gli Stati Uniti non siano mai stati all’altezza dei loro valori proclamati non ha impedito a quei valori di rappresentare un obiettivo a cui tendere, di dare una direzione al progresso anche fuori dai loro confini». Come ultima domanda, allora, ti chiedo se quei valori oggi sono cambiati: e se sì, con quali effetti, per loro e per noi. Insomma: cosa rimane oggi della frontiera americana?
Il mito della frontiera è ancora al centro del modo che gli americani hanno di guardare a se stessi e al mondo: è fondativo, lo si ritrova dentro ogni discorso pubblico. Non riguarda il confine, anche se viene dal rapporto degli americani con lo spazio: è un’idea più culturale che politica. Per questo motivo, quando si definiscono il faro di speranza del mondo, gli americani la raccontano più a se stessi che a noi. Noi saremo giustamente scettici ma loro ci credono per davvero. E c’è un’altra cosa importante da capire, per noi che li guardiamo da fuori: il mito della frontiera e dell’esplorazione non comporta necessariamente alcuna nobiltà. A volte produce coraggio e altre volte scelleratezza, imprudenza. A volte genera degli strappi di progresso destinati a riverberarsi nel mondo, a produrre speranza, fiducia, cambiamenti: capita ancora oggi, si pensi alla legalizzazione della marijuana o al matrimonio egualitario, o alla gigantesca elaborazione culturale sui gender studies o sul razzismo, che ha una influenza globale e non è certo tutta da buttare. Altre volte genera avventurismo, crudeltà, o immagina l’esistenza di una presunta “purezza” americana da difendere. Ma ecco: gli americani si buttano dentro con tutte le scarpe, sempre. Questo è rimasto.
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