Il buon Sigmund Freud disse una volta che un giorno, guardandoci indietro, gli anni di lotta ci sembreranno i più belli: cosa possibile, per carità – chi sono io per mettere in dubbio ciò che dice Freud? – ma va anche detto che il terapeuta di Anna O. probabilmente non poteva immaginare «lotte» sconsolanti come quelle di questi anni. E come quelle dell’anno che sta per chiudersi, nello specifico.
Tanto per dire, solo per rimanere all’ultima settimana, nella scuola media Jacques-Cartier di Issou, sobborgo a ovest di Parigi, è scoppiato un caso dopo che una insegnante ha mostrato ai suoi giovani allievi Diana e Atteone, un celebre dipinto tardomanierista del pittore italiano Giuseppe Cesari che raffigura le ninfe e la dea sorprese nude al bagno dal mitologico cacciatore.
Alcuni studenti dodicenni, molti di loro di fede musulmana, si sono lamentati della vista “oscena” – purtroppo trovando un’efficace sponda nei loro genitori, che hanno inviato lettere di protesta alla scuola – e così dalla discussione di un dipinto ospitato al Louvre è nata una polemica nazionale (in un Paese dove il rapporto con l’Islam è notoriamente problematico, e in cui nel 2020 Samuel Paty, un professore di scuola media, è stato decapitato per aver mostrato una vignetta su Maometto).
Della vicenda ho avuto il privilegio di parlare ai microfoni degli studi di 24 Mattino, la trasmissione di Simone Spetia su Radio 24 (qui si può riascoltare la puntata, se vuoi), e ahinoi – tornando agli anni di lotta, e alle lotte di quest’anno – non è l’unica del genere da mettere a verbale nel 2023: a gennaio Erika López Prater, una professoressa di storia dell’arte dell’antica Hamline University, in Minnesota, ha addirittura perso il lavoro per aver mostrato (dopo aver preso ogni precauzione) un capolavoro dell’arte islamica alla sua classe: una studentessa musulmana si è lamentata di aver visto rappresentato il Profeta, si è creato il caso, il contratto di López Prater non è stato rinnovato.
Ma anche fra i cosiddetti difensori della tradizione occidentale e del classicismo le cose non vanno meglio: a marzo la Tallahassee Classical School, che porta la difesa del canone anche nel nome, ha allontanato la sua preside dopo che alcuni piccoli, innocenti pargoli (e relativi genitori) si sono lamentati di aver visto in classe la scultura più famosa della storia, il David di Michelangelo, che sarà anche ben fatto, sì, ma è anzitutto tremendamente nudo.
Per il resto, che anno è stato nelle cosiddette culture wars di cui parliamo in quest’angolo di email e garbata antipatia per il like? Come da alcuni a questa parte non ci siamo fatti mancare niente, si può dire: politici di profilo internazionale che impazziscono e iniziano a costruire barricate attorno alle cucine a gas, oppure di fronte a innocue proposte di urbanistica sostenibile. Quando non direttamente sulle ciambelle.
Spostandoci più a sinistra, è stato l’anno delle damnatio memoriae ai danni di chi si è reso colpevole di aver giocato a un videogioco ispirato a una saga scritta da una persona con idee criticabili (mi scuso per la frase contorta, ma i gradi di separazione sono questi), e quello in cui un brillante editore britannico si è detto: è ora di aggiornare i libri di Roald Dahl, così che possano «essere ancora apprezzati da tutti» (well done, Winston).
In Italia, tre povere criste da asilo Mariuccia della xenofobia hanno passato giorni burrascosi in una grandiosa messinscena virale delle ombre della società algoritmica, mentre influencer ricche e famose ci hanno spiegato che il riposo è «un atto politico»; più recentemente, noi uomini ci siamo messi impunemente davanti all’obiettivo, in un film dove non dovevamo, per una volta, interpretare i protagonisti.
Le mie storie – diciamo – preferite? Difficile ricordarle tutte, viste quante me ne passano per le mani, ma mi è impossibile non menzionare l’evento di «simulazione di povertà» annullato da un club per ricchi dei sobborghi Wasp di Chicago, perle come Jordan Peterson che vede «tirannia» nel mite adesivo che chiede di non sprecare inutilmente carta in un bagno pubblico, chicche come il seminario antirazzista per soli bianchi a New York e paradossi quali l’Aspettando Godot cancellato nei Paesi Bassi perché interpretato da soli attori maschi, come d’obbligo per Aspettando Godot.
Tra le letture più serie che ho consigliato, invece, menzione d’onore per la lectio magistralis sull’era delle guerre algoritmiche della classicista britannica Mary Beard, il saggio del sociologo premio Pulitzer Matthew Desmond sull’origine della povertà in America e, in italiano, le claustrofobie che vanno a braccetto con un certo uso del termine «privilegio».
Concludendo con una nota personale, per me il 2023 è stato un anno straordinario: il mio libro La correzione del mondo, nato per volere dell’editore Einaudi come spin-off e approfondimento di questa newsletter, è stato – lo posso dire, anche se mi tremano un po’ le gambe – un successo di pubblico e di critica (tolto, per completezza, un singolo caso di un singolo tizio del giro p o e s i a che l’altro giorno, a otto mesi dall’uscita, ne ha parlato malissimo insultandomi sul suo profilo Facebook: nulla che pesi sulla statistica inferenziale, ma dovere di cronaca), mi ha permesso di viaggiare da Trento a Napoli alla Sardegna in dozzine di presentazioni, festival, firmacopie, incontri pubblici in scuole e biblioteche.
Mi sono divertito un mondo, lo ammetto, ma soprattutto ho sentito la responsabilità e l’onore di farmi interprete e, nel mio piccolo, catalizzatore di discorsi che presto saranno sempre più centrali non soltanto sul piano culturale, ma anche nel nostro modo di rapportarci al prossimo. Ne sto parlando in radio, sui giornali e, appunto, in buona parte del Paese con lettori, lettrici e persone che passano alle presentazioni: e questo sì, è davvero un privilegio.
Grazie anche alle firme che hanno contribuito coi loro punti di vista e le loro storie a Culture Wars nel 2023: e quindi, in ordine cronologico, a Francesco Marino, Silvia Camporesi, Bernardo Notarangelo, Veronica Costanza Ward, Francesco Avallone, Flavia Carlorecchio e Raffaele Alberto Ventura. E grazie a te, se anche oggi sei arrivato/a fin qui a leggere, per il tuo supporto e i tuoi contributi al dibattito e al progetto. It was a blast, come si dice in questi casi.
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