Dunque, non so se hai saputo ma un partito post-fascista ha stravinto le elezioni in Italia (per chi se lo sta chiedendo: è un curioso Paese a forma di stivale dell’Europa del Sud). La sua leader, Giorgia Meloni, ha 45 anni e aveva fatto un appello al voto pubblicando un video con in mano due meloni. Al momento sta valutando a quali personalità di altissimo profilo (mi pare si dica così, di norma) affidare i ministeri del suo governo, e Dio ci aiuti.
In ogni caso, anche nell’ambito dei temi trattati da questa newsletter, il trionfo meloniano è rilevante: l’Italia avrà il governo più di destra della sua storia repubblicana, e con esso verosimilmente assisteremo a tantissime schermaglie più e meno lascamente ancorate sul piano delle guerre culturali. Un piano su cui la leader di Fratelli d’Italia ha puntato molto, anche al di là del suo tormentone da vocalist sull’essere «donna, madre e cristiana».
Insomma: che cosa pensa la prima premier donna della storia del nostro Paese? Qual è la sua visione del mondo? Avrà mica mai detto [sospiro] cancel culture? Per questa puntata di Culture Wars ho messo insieme una selezione di sue dichiarazioni, in modo da raccontarla con le sue stesse parole (e, soprattutto, prepararci al futuro prossimo che ci attende).
«Guardando al Nord America ci batteremo in particolare per la difesa dei simboli e dei monumenti che negli ultimi anni sono stati al centro di vergognose pratiche di “cancel culture”. E non è un caso che, proprio nel collegio di Genova, città natale di Cristoforo Colombo, abbiamo scelto di candidare uno dei nostri più validi dirigenti [...] Una scelta simbolica per rinnovare il nostro impegno contro chi vorrebbe abbattere i simboli della nostra storia e della nostra identità nel mondo».
(La Voce di New York, 14 settembre 2022)
Ora mi fai un nome di «chi vorrebbe abbattere i simboli della nostra storia e della nostra identità nel mondo», Gio. Ma uno, eh. Comunque candidare i più meritevoli in difesa di Cristoforo Colombo mi sembra un grande passo avanti per la democrazia, brava.
«Il delirio della cancel culture si scatena anche sul cibo. Questa volta la terribile minaccia proviene dalla torta di mele, classificata come razzista perché avrebbe radici nel colonialismo e nella schiavitù. Chissà quando toccherà, per esempio, alla pizza o al vino. Sono curiosa di sapere cosa si inventeranno».
(Herself, 14 giugno 2021)
L’articolo per cui qui Meloni ha droppato la c-word, come diciamo nel basso Piemonte, è uscito sul Guardian ed è stato scritto da un esperto di sistema alimentare mondiale, il britannico di origine indiana Raj Patel. A voler essere molto comprensivi, contiene in effetti qualche riga da alzata di sopracciglio («la torta di mele è americana quanto la terra, la ricchezza e il lavoro rubati. Viviamo ancora oggi le sue conseguenze»), ma in generale è puntuale e informato. E soprattutto non chiama in nessun modo alla, uhm, cancellazione della torta di mele, ma semmai a pensare ai rapporti economici e lavorativi che la rendono così diffusa.
«Lavoreremo per attuare la prima parte della legge 194 e sostenere le donne che non vogliono abortire, difenderemo la libertà educativa delle famiglie da chi vuole imporre le teorie gender nelle scuole, ci batteremo per rendere l’utero in affitto reato universale e velocizzare le adozioni».
(Panorama, 10 agosto 2022)
Per quanto riguarda «la prima parte della legge 194», l’espressione è – casualmente – molto in voga negli ambienti anti-abortisti di ispirazione cattolica, come quello del Movimento per la Vita. Il riferimento è all’art. 1 della legge italiana sull’accesso alla aborto, che stabilisce che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».
Stabilire «l’inizio» della vita umana è forse questione da filosofi più che da legislatori, ma una cosa rimane certa: «le donne che non vogliono abortire», in Italia, non sono obbligate a farlo. Viceversa, per quelle che vogliono abortire la situazione non è affatto rosea: in alcune regioni, come il Molise, l’interruzione di gravidanza è di fatto impossibile, in violazione della legge 194.
«Le teorie gender», invece, semplicemente non esistono.
«Vedo l'ideologia woke distruggere le basi della famiglia naturale, attaccare la vita, insultare la religione, cambiare le parole e persino imporre nuovi segni grafici. Solo pochi mesi fa, i burocrati dell'Unione Europea hanno scritto un documento di centinaia di pagine, dicendoci che per essere inclusivi, dovevamo escludere ogni riferimento al Natale».
(Herself, ospite alla convention dei Repubblicani americani, 27 febbraio 2022)
Premier Meloni, che quel coacervo di movimenti e frange individualistiche che si definisce «woke» abbia molta confusione in testa è pacifico, e convengo con lei che in molti casi fa più danni che altro. Ma sostenere che chi ne fa parte (per quanto l’espressione «ideologia woke» sia una sorta di contraddizione in termini: anche qui si parla più che altro di unicorni) vuole «distruggere la famiglia tradizionale» e «attaccare la vita» è una barzelletta. Chi vuole distruggere che? Chi sta attaccando cosa? E in che modo? Mistero.
Sul panico conservatore abilmente destinato a un innocuo documento dell’Ue sul linguaggio inclusivo in occasione del Natale abbiamo parlato nella prima puntata ever di Culture Wars, lo scorso dicembre: la rimando a quella, nel caso.
Sarai contento/a di sapere che la presidente del Consiglio del tuo Paese a breve si occuperà dei casi di rimozione dai profili dei minori su Disney+ di cartoni animati d’antan: detto da uno per cui sono il pedante tentativo di una corporation di farsi dire «brava» dai suoi clienti (ho guardato Gli Aristogatti due dozzine di volte da bambino, e non sono cresciuto con la convinzione che gli asiatici suonino xilofoni con le bacchette, né se è per questo che tutti i romani siano sfrontati e piacioni), fa piacere sapere quali saranno le priorità del nuovo esecutivo.
Vorrà dire che, se mancherà il gas, ci scalderemo con la cosiddetta cancel culture.
Altre news dal fronte
- Meg Smaker è una regista che ha passato un anno e mezzo in un centro di riabilitazione per persone accusate di terrorismo in Arabia Saudita: nel documentario Jihad Rehab, che era stato selezionato per il Sundance di quest’anno, ha parlato con ex detenuti di Guantanamo, che si sono aperti con lei e le hanno spiegato cosa li ha portati a unirsi ad Al Qaeda in gioventù. Il Guardian aveva recensito il film in toni entusiastici («è un film per persone intelligenti che cercano di mettere alla prova i loro preconcetti»), e Variety pure. Ma gli attacchi pubblici – e i conseguenti problemi – non sono arrivati da destra, come si aspettava Smaker, bensì da sinistra: alcuni filmmaker musulmani – e tanti portavoce non musulmani – hanno accusato la regista, che è bianca, di essersi appropriata di una storia che non la riguarda, e in molti casi di fare propaganda islamofoba (per completezza, alcuni degli ex prigionieri intervistati hanno firmato una lettera aperta contro il film). Le stesse persone che fino a poco prima avevano lodato la pellicola hanno iniziato a criticarla con veemenza, a partire dalla sua produttrice Abigail Disney. E il Sundance ha cambiato idea, escludendola dalla kermesse. La storia di Jihad Rehab è sul New York Times e merita una lettura;
- Piccolo capolavoro: Joyce Carol Oates, non essendo identitariamente molto bella, non aveva alcun diritto di scrivere Blonde, un romanzo ispirato alla vita di Marilyn Monroe. Non è un tweet pubblicato da un adolescente cretino che passa troppo tempo online, ma bensì dall’autrice di un bestseller finito nella classifica dei libri più venduti del New York Times, la canadese Terese Marie Mailhot;
- Un commento che mi sono segnato: «Stiamo raggiungendo una singolarità in cui le uniche persone che vedono il mondo esclusivamente attraverso lenti razziali sono le persone di sinistra con un’istruzione universitaria e i movimenti politici di estrema destra»;
- Tweet che mi fanno sempre ridere, stavolta non involontariamente:
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