Nel periodo in cui ho frequentato una piccola associazione di volontari che si riuniva al mezzanino della stazione Centrale di Milano per dare una prima assistenza ai profughi – soprattutto siriani – in arrivo in Italia, ho conosciuto una persona alla quale talvolta mi trovo ancora a pensare: Gianluca Pinter, un uomo sulla sessantina con una folta coda di capelli bianchi e un temperamento burbero, incline alla battuta pronta e alle contumelie.
Pinter era il centro nevralgico di ogni attività del mezzanino: distribuiva pasti, si occupava personalmente del reperimento di abiti e coperte, aiutava i migranti nell’intricato disbrigo delle pratiche, riuniva le famiglie facendo il giro degli hub di accoglienza del Milanese. Dormiva per strada a sua volta, ed era instancabile: lo potevi trovare attivo a qualsiasi ora, giorno e notte, e quando non era a portare un po’ di conforto a un bivacco di senzatetto o nel centro di accoglienza di via Sammartini potevi star certo che stesse riposando nella roulotte parcheggiata lí davanti, sotto il lungo cavalcavia della stazione.
Era stato un senzatetto a sua volta, e aveva vissuto la Milano violenta degli anni Settanta dalla parte dei fascisti: il suo nome compare nell’inchiesta sulla morte di Fausto e Iaio, i due studenti di sinistra massacrati dalla destra nera per ritorsione del pestaggio rosso di uno spacciatore fascista nel 1978. Ecco, quello spacciatore fascista era lui.
E non aveva mai rinnegato i suoi trascorsi, Gianluca: prima fascista, poi – tra un pasto caldo e l’altro servito ai migranti infreddoliti – orgogliosamente salviniano, e capace di una verve polemica che aveva nelle giunte di sinistra il suo bersaglio preferito. «Salvini ha ragione, ma questi sono poveracci e io li aiuto. Se uno ha freddo a me non me ne frega niente da dove viene, gli do una coperta. Poi il resto si vede», era solito dire a chi gli chiedeva conto del controsenso.
Gianluca Pinter era una contraddizione vivente: votava Lega, era ebreo e non aveva problemi ad ammettere il suo passato fascista, ma dedicava ogni giorno della sua vita all’accoglienza delle persone che la Lega non voleva accogliere, non di rado rimettendoci di tasca propria. È morto nel 2019, nella solitudine che l’aveva sempre accompagnato e dopo una vita senza gli onori che avrebbe meritato. Prima di quella data era sempre stato troppo impegnato a rendere il mondo un posto un po’ migliore per trovare il tempo di postare ossessivamente slogan di posizionamento su Twitter o Instagram.
Ma immaginiamo per un secondo che l’avesse fatto: alla prima esternazione su Salvini e sull’immigrazione gli avrebbero dato del fascista (senza sbagliare di molto, per l’appunto) e del nemico dei poveri e delle persone ai margini, sbagliando invece di moltissimo.
Dire che Gianluca Pinter risultasse rappresentativo dell’elettore leghista medio sarebbe prenderci in giro, ed è probabile che non bastino mesi o anni per trovarne un altro come lui. Eppure la sua vicenda, benché quantomeno inusuale e iperbolica, è adatta a rappresentare un altro errore di forma e di sostanza in cui stiamo cadendo: il non saper più scindere le persone dalle loro opinioni.
Anzi, a dirla tutta non sappiamo proprio più distinguere i piani. Quel che facciamo sempre più spesso è accorpare una persona a caso di cui non sappiamo nulla a un suo singolo messaggio quasi sempre estrapolato dal contesto di provenienza, e di cui in fin dei conti non ci interessa granché: lo facciamo per esibire la nostra pretesa virtù, rinsaldare la nostra appartenenza e serrare i ranghi del fronte di cui facciamo parte. Se i Gianluca in Do minore del mondo non vogliono finire ricondivisi e dileggiati sui nostri feed (una cosa che succede regolarmente anche in senso politico opposto, da sinistra a destra), che la smettano di avere idee che riteniamo sbagliate. Facile, no?
Eppure quelle persone con cui ci scontriamo sono quelle che vivono intorno a noi, e con cui volente o nolente dobbiamo e dovremo rapportarci. Possono essere genitori, parenti, vicini di casa: anche se legittimamente non vogliamo aver nulla da spartire con alcune loro posizioni retrograde, non meritano di essere rinchiusi in un singolo commento stupido o in una sola convinzione erronea.
A scanso di equivoci, i demoni nelle società in cui viviamo esistono eccome – e un’attualità politica di stragi razziste e assalti alle istituzioni democratiche ce l’ha provato al di là di ogni dubbio – ma non è con la demonizzazione indiscriminata che li sconfiggeremo. Ci servono più conoscenza e accettazione dell’altro, più tolleranza – che è esattamente ciò che a sinistra si continua a dichiarare di sostenere – non il contrario.
Possibile che nessuno si accorga dello stridore generato dal credere in uno spettro virtualmente infinito di identità di genere, da una parte, mentre dall’altra si finisce per ammettere solo incasellamenti rigidamente divisi in buoni e cattivi? Anche il mondo delle opinioni degli altri, come le nostre percezioni interiori, è più complicato di un sistema binario e approssimativo.
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
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