Una cosa piccola, nel marasma di cose grandi e largamente terribili che stanno succedendo a ogni livello negli Stati Uniti, tra procuratori statali che perseguitano college in odore di diversità e inclusione, un presidente che firma ordini esecutivi per silenziare chiunque l’abbia mai criticato, dagli archivi di Stato agli studi legali privati, e un generale clima da MAGArtismo che non fa nemmeno lo sforzo di celarsi dietro una facciata di visione politica.
La cosa piccola in questione è che Gavin Newsom, 57enne governatore della California dal 2019, ha lanciato un suo nuovo podcast, titolato senza grande originalità This is Gavin Newsom, che nella prima puntata ha ospitato Charlie Kirk.

Kirk è un nome conosciutissimo nella galassia delle personalità della destra trumpiana: fondatore della ong conservatrice Turning Point USA, ha milioni di follower sui suoi profili social e un programma radiofonico quotidiano molto popolare e influente tra i reazionari, The Charlie Kirk Show. Da tempo lavora direttamente con l’entourage di Trump, di cui ha sostenuto il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e che identifica, tra le altre cose, come l’uomo capace di ripristinare la morale cristiana in America.
Insolito, dunque, che il leader dello Stato progressista per antonomasia, la California, decida di battezzare il suo nuovo spazio di approfondimento con un influencer di destra estrema, no?
Beh, sì, ma non finisce qui. Newsom si è lasciato andare a una serie di commenti che fino a pochi mesi fa sarebbero suonati lunari in bocca a un politico Democratico di primo livello, a maggior ragione in quella di uno con mire alla Casa Bianca per il 2028. Sull’idea di far partecipare le atlete transgender negli sport femminili al college, un punto fin troppo dibattuto su cui Kirk l’ha incalzato, Newsom ha detto, tra l’altro:
Penso che sia una questione di giustizia, sono completamente d'accordo con te su questo. È una questione di giustizia, è profondamente ingiusto.
Newsom ha convenuto con il suo interlocutore sull’«ingiustizia» della recente vittoria in una gara di salto triplo di AB Hernandez, una ragazza transgender di un college californiano, e suggerito che fino al 90% degli statunitensi sarebbe stato contrario all’idea di Kamala Harris di destinare fondi pubblici alle terapie di transizione per detenuti e persone migranti.
Si tratta di un testacoda spettacolare: non solo perché il governatore ha costruito la sua reputazione da inossidabile difensore dell’amministrazione Democratica uscente, ma perché ha impostato la sua immagine nazionale su un ruolo da precursore nel campo dei diritti civili: vent’anni fa, da sindaco di San Francisco, ha apertamente sfidato il suo partito sancendo la legalità dei primi matrimoni egualitari delle coppie gay e lesbiche della California; in tempi molto più recenti, nel 2023, battagliava fieramente col suo antagonista più naturale e simmetrico, il governatore anti-woke della Florida Ron DeSantis, accusandolo di «denigrare la comunità Lgbt».
E il tutto da garante e capo politico dello Stato del progressismo più utopico e sbrigliato – almeno sulla carta – quello in cui si combattono le scuole che vogliono avvertire i genitori degli alunni che desiderano cambiare il loro genere, si annunciano piani per togliere fondi alla polizia e si richiede che i professori universitari facciano voto di aderenza ai dettami dell’attivismo intersezionale.
O forse così è stato finora? Nel podcast Newsom, senza fare un plissé, ha spiegato a Kirk di non apprezzare particolarmente l’insistenza sui pronomi e l’uso di termini presuntamente inclusivi come “Latinx”; ha quindi definito il movimento Defund the police «una follia», denunciato la cosiddetta “cancel culture”, ammesso qualche problema interno alla leadership di Black Lives Matter e spiegato che l’influencer di destra ha un particolare ascendente sul suo figlio 13enne.
Per completezza, Newsom, sul tema delle atlete transgender, ha anche detto che «il modo in cui le persone parlano dall’alto in basso alle comunità vulnerabili» per lui è «un problema», e ha ricordato che le persone transgender soffrono di depressione e arrivano al suicidio in percentuali maggiori rispetto alla popolazione generale.
Resta, però, che la sua chiacchierata fin troppo rilassata con Kirk segna un riposizionamento strategico: non è che la partecipazione delle atlete trans allo sport femminile, per esempio (iper-strumentalizzato dalla destra rispetto al suo reale impatto, specie di fronte a una cronaca politica che vede addirittura l’espunzione del termine «transgender» dai siti governativi) prima fosse particolarmente popolare presso gli elettori, ma una dichiarazione del genere l’anno scorso avrebbe condotto non solo a strali nella riserva indiana di Bluesky – quelli ci sono anche ora – ma anche a una perdita di punti in seno all’establishment Democratico.
E allora viene anzitutto da chiedersi cosa ci sia di vero, nelle posture da alleati dei progressisti che in realtà sono solo in cerca di un posto al sole, che cambia non appena cambia il vento. Ma questa è una domanda che in questo spazio ci siamo già fatti tante volte, arrivando spesso alla stessa risposta: poco.
Più interessante, forse, sarebbe ragionare sull’estrema semplicità con cui oggi ci si può allontanare da tutto ciò che si è detto, sostenuto, protetto e innalzato fino al giorno precedente, riempiendo un cuscinetto che proietta un’immagine comodamente rinnovata, ripulita. Succede da tempo anche alle nostre latitudini, come dimostra un’infinita schiera di politici e intellettuali, ma mi sembra un fenomeno in crescita verticale.
Nel caso di Newsom il voltagabbana è particolarmente appariscente, tanto da accostarlo a quello dei capitani d’industria illuminati sulla via di Mar-a-Lago, perché il governatore è stato il garante della California come progetto politico di frontiera, ritratto come una sorta di Stargate verso una nuova era del progressismo. I californiani, scriveva nel 2016 un corsivista del New York Times che oggi suona un po’ ingenuo, sono «legati come un unico popolo dai valori condivisi di una società sempre più tollerante e pluralista».
Quella società forse ha preso una piega diversa – o forse non è mai esistita, se non nelle camere dell’eco dei social media, quelle in cui siamo sempre troppo impegnati a darci ragione coi nostri mutuals per ragionare su cosa sta accadendo nel mondo circostante.
È un tema che mi affascina, quello del riposizionamento in corso dopo il primo, terribile mese di trumpismo, anche perché non si ferma né a Newsom né agli Stati Uniti, appunto: io, per esempio, lo noto in atto anche nei commentatori al di qua dell’Atlantico. Persone che fino a prima di Natale – magari per aver lasciato passare qualche spiffero di realtà dalle finestre della bolla – si mostravano aperte al ragionamento e alla persuasione, e che oggi sono rapidamente tornate alla testa di una carovana apodittica di sbruffoneria di gruppo, proscrizione, toni prosopopeici e ferale chiusura nel compartimento stagno dell’algoritmo. Chi si è visto, si è visto.
Il dramma è che tutto questo, quando avviene anche a sinistra, non farà che avvantaggiare i Trump e i Musk in volo circolare sopra le carcasse del progressismo. Per fare un esempio più concreto: se l’avete fatto no, progressisti, non avete sbagliato a considerare in maniera critica i falsi problemi, i bisticci social senza capo né coda, le piccole cacce alle streghe e i rainbow washing che la destra internazionale ha ingigantito per conquistare il mondo; se qualcuno deve «vergognarsi» (come ho letto: io direi piuttosto «farsi un esamino di coscienza»), è piuttosto chi è rimasto a guardare twittando sul cuscino di velluto della sua cricca algoritmicamente deformata, alimentando la perdita di liquame invece di sporcarsi le mani con un tentativo di riparazione del tubo di scarico.
Cambiare idea è la cosa più normale del mondo, certo – solo gli stupidi... eccetera eccetera – ma quel che sta avvenendo in questi anni, e in modo sempre più marcato nell’ultimo biennio, è una riscrittura profonda del minimo senso di responsabilità che segue un posizionamento o un’opinione: non un legame inscindibile, ma una doverosa unione di pensiero e di azione, capace di generare una visione del mondo di cui è possibile discutere e chiedere conto senza gerghi tribunizi.
Sembra quasi che lo spazio sul disco rigido della nostra memoria sociale sia perennemente in esaurimento, assediato com’è da un flusso interminabile di azioni e reazioni dal respiro cortissimo, e che questo ci porti tutti a elidere le elaborazioni a breve termine: magari ci ricordiamo di un Tizio o Caio qualunque perché ha detto una cretinata diventata virale un decennio fa, ma in fondo che importa se un leader, un influencer o un capitano d’industria si erge improvvisamente a portavoce di tutto e il suo contrario? È solo altro content a cui pensare per un giorno o due, in attesa della prossima polemica a cui reagire in modo fiacco, rigorosamente fra i nostri simili.
E così facendo, al di là dei confini asfittici delle nostre bolle, i Gavin Newsom del mondo saranno sempre più liberi di andare dove tira il vento: conta ingaggiare un pubblico, non saper argomentare per fargli cambiare idea. Conta l’hype, non quel che succede quando l’hype va a farsi benedire. Il che va bene, o forse proprio no.
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