La fine delle identity politics?


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Qualche settimana fa, in una pagina Instagram del sottobosco dell’attivismo di una sinistra che qualche vecchio cronista definirebbe “extraparlamentare”, ho letto un post che mi è sembrato il primo canto di rondine a primavera. Una serie di card con uno dei font standard della piattaforma recitava: «L’admin di questa pagina non è nato italiano. L’identità pare sia la prima cosa da mostrare, come i documenti alla polizia. Allora sia esplicito: chi scrive queste parole ha subito razzismo per gran parte della sua vita. Il fatto di aver subito razzismo non mi rende di per sé maggiormente cosciente del fenomeno razzista. Né mi rende automaticamente innocente, onesto, buono». L’admin continuava:

Non esiste la posizione degli ‘immigrati’ che tutte/i gli altri devono prendere per buona, come fosse parola del Signore. Quello che invece spesso succede è che uno cerca in noi quello che già pensava, e poi pretende che la posizione del nero amico sia l’unica accettabile, morale, possibile”. [...] Da immigrato il mio obiettivo non è chiudermi nella mia identità a dare patenti di alleato legittimo o meno. Il mio obiettivo è eliminarle, queste identità. E per farlo bisogna eliminare la base di ogni differenza sociale, quella di classe.

Si può essere o meno d’accordo con la prospettiva materialista e marxista di queste righe, ma il punto di vista che esprime, negli ultimi quattro o cinque anni nel contesto dell’attivismo progressista è stato guardato con sospetto, sminuito, quando non direttamente esposto alla gogna o, come da gergo di settore, a call-out. 

Quando Mario Balotelli segnò il magnifico 2-0 alla Germania la sera del 28 giugno 2012, lo scrittore Teju Cole scrisse sull’allora Twitter «il razzismo in Italia è appena finito»; sperando di avere un po’ più di fortuna, e senza negare una dose comparabile di wishful thinking, dopo aver letto il suddetto post ho pensato che fosse perfetto come canto funebre per la fine dell’era delle identity politics.

Nascita e morte dell’identità

Secondo la definizione del dizionario Merriam-Webster, le identity politics sono quelle «politiche in cui gruppi di persone con una particolare identità razziale, religiosa, etnica, sociale o culturale tendono a promuovere i propri interessi o preoccupazioni specifici, senza riguardo per gli interessi o le preoccupazioni di un gruppo politico più ampio». Sebbene l’uso dell’espressione sia rintracciabile già nelle opere di Mary Wollstonecraft e Frantz Fanon, è a partire dagli anni Settanta che identity politics entra appieno nel vocabolario della politica.

E non per caso: il decennio delle contestazioni ha portato con sé un’attenzione per le lotte per il riconoscimento e la giustizia sociale di femministe della seconda ondata, afroamericani, movimenti indigeni e omosessuali, gruppi di cittadini che condividono una posizione di oppressione o subalternità nelle democrazie capitalistiche occidentali, e che si uniscono per meglio rappresentare il loro punto di vista. Il primo uso moderno del termine è rintracciabile nel Combahee River Collective Statement, la dichiarazione redatta nel 1977 da un gruppo di femministe nere di Boston, che vedeva nelle identity politics un sigillo per riferirsi ai modi in cui capitalismo, razzismo, patriarcato e sessismo segnavano le loro esperienze quotidiane.

In questa fase primigenia le politiche identitarie, nonostante la loro impostazione strutturale, avevano un afflato universalistico: Martin Luther King sognava un’America in cui i suoi figli non sarebbero stati giudicati per il colore della loro pelle ma per le qualità del loro carattere; la pioniera del femminismo della seconda ondata Betty Friedan non risparmiava critiche nei confronti di quelle fronde del suo movimento che prendevano di mira gli uomini e le casalinghe; le stesse femministe del Combahee River Collective intendevano costruire una rete di solidarietà che superasse, in ultima analisi, i limiti dell’identità.

Ma nel frattempo a farsi strada nei movimenti – e prima ancora nei punti d’incontro degli intellettuali e nei campus universitari – era arrivato un gruppo allargato di pensatori e correnti filosofiche destinato a imprimere un decisivo cambio di rotta. Individuare singoli nomi a cui attribuire il passaggio all’incarnazione moderna dell’espressione è un compito gravoso, ma una lista preliminare comprenderebbe senza dubbio le riflessioni del secondo periodo della scuola di Francoforte, che con Theodor Adorno ed Herbert Marcuse pose le fondamenta per rileggere la società in base alla posizione relativa della propria identità rispetto al potere; il già citato Frantz Fanon, con classici del pensiero decoloniale come I dannati della terra (Einaudi, 2007), e l’ugualmente celebre Edward Said si interrogarono sui legami tra razza, identità e potere; teorici post-strutturalisti come i francesi Michel Foucault e Jacques Derrida si concentrarono sulla lingua per decostruire le narrative dominanti e mettere in dubbio l’esistenza stessa di esperienze universali; l’accademica Kimberlé Crenshaw teorizzò l’intersezionalità, una chiave di lettura della società secondo cui una persona che fa parte di molteplici gruppi identitari (le donne, i neri, gli immigrati) vivrà un’esperienza esclusiva di oppressione. 

È in questo humus culturale, quello posto sotto l’ombrello filosofico della Critical Theory di provenienza francese, che sono nate pietre angolari del postmoderno come le espressioni lived experiences, che vuole sottolineare la preminenza delle esperienze vissute direttamente dalle identità oppresse, e cultural appropriation, o appropriazione culturale, ciò di cui si macchia chi mostra impunemente segni di appartenenza a un’identità culturale diversa dalla sua.

Le identity politics così definite hanno conquistato i programmi di studio della prestigiosa Ivy League statunitense, diventando l’architrave epistemico dell’istruzione superiore internazionale: negli ultimi dieci anni le burocrazie accademiche predisposte a indirizzare le controversie afferenti, anche in modo lasco, ai temi della diversità culturale si sono espanse a dismisura, arrivando a costituire università-nelle-università fatte di solerti controllori in cerca di espressioni imprecise o studenti feriti nella loro (o, più spesso, nella altrui) sensibilità identitaria. Con effetti non di rado farseschi: come quando, nel 2020, un professore di cinese della University of Southern California, Greg Patton, ha ricevuto un provvedimento di sospensione per aver pronunciato un intercalare della lingua cinese, 那格, Nà gé, che ha una pericolosa assonanza con un termine dispregiativo razzista; o quando, nello stesso anno e nella vicinissima University of California-Los Angeles (Ucla), il docente di economia Gordon Klein è stato sospeso dall’insegnamento per «abuso di potere» dopo aver risposto con un diniego garbato e ironico alla richiesta di uno studiente bianco di un esame «no harm»c – cioè, nei nostri termini, un 6 politico – per mostrare vicinanza agli afroamericani dopo l’assassinio di George Floyd a Minneapolis (e richieste del genere sono arrivate negli atenei delle ricche élite anche dopo le vittorie di Donald Trump nel 2016 e pochi giorni fa). In tempi più recenti, le bombe di Israele su Gaza hanno rinsaldato ulteriormente le linee di divisione identitaria, rendendo il campus un ribollire di pulsioni strumentalizzate dalla politica delle culture wars: gli scontri hanno portato l’anno scorso all’allontanamento  della ex presidente di Harvard Claudine Gay, ritenuta troppo indulgente nella gestione di alcune manifestazioni antisemite, specie usando il metro di tolleranza che l’ateneo è solito applicare nei casi di discriminazione su base identitaria.

Mentre le esclusive aule dell’Ivy League le celebravano fino a renderle un paradigma di convivenza sociale, al di fuori dei campus le identity politics hanno conquistato (e, all’estero, in Paesi come la Francia e la Gran Bretagna, colonizzato) alcune importanti istituzioni statali, venendo infine inglobate dal sistema capitalistico e dai media contemporanei. 

Quest’ultima fase, quella che lo studioso australiano Carl Rhodes ha ribattezzato del «capitalismo woke», le ha viste declinate in un infinito scorrere di campagne pubblicitarie “inclusive”, proclami orientati alla diversity di Ceo di multinazionali con fatturati miliardari e iniziative pubbliche per celebrare questa o quella appartenenza identitaria. Eppure le politiche Dei (acronimo di Diversity, Equity & Inclusion) nel mondo corporate hanno dimostrato di essere una piuma al vento: quest’anno marchi come Ford, Harley Davidson, la birra Coors e Jack Daniel’s, tra gli altri, hanno già quietamente dichiarato di aver fatto marcia indietro sui loro patrocini identitari, segnalando una dedizione alla causa tutt’altro che sincera (senza contare che altre aziende si sono distinte sventolando la bandiera della diversità per coprire i loro comportamenti antisindacali).

Lo storico e critico culturale Jackson Lears ha descritto le identity politics come una tragica necessità: da una parte, uno strumento necessario a individuare e affrontare le necessità specifiche di gruppi tuttora largamente marginalizzati nelle società occidentali; dall’altra, un combustibile a buon mercato per divisioni artefatte, essenzialismi di ritorno, vittimismi incrociati e una cooptazione politica che avrebbe inevitabilmente favorito i maestri del divide et impera.

Nel suo Critica della vittima (Nottetempo, 2014), l’autore Daniele Giglioli nota: «Se solo la vittima è nel vero, chi desidera crisma di verità per il proprio discorso sarà sempre tentato dalla menzogna di spacciarsi per la vittima che non è». Il più grande protagonista della saggistica militante nordamericana, l’autore antirazzista Ibram X. Kendi, divenuto una celebrità sulla scia delle proteste per l’uccisione di George Floyd a Minneapolis (tra i suoi titoli più celebrati, Come essere antirazzista, Mondadori, 2021), è finito nei guai quando, nel 2023, alcune inchieste hanno scoperto che il suo centro di ricerca sull’antirazzismo, ospitato dall’Università Boston e destinatario di donazioni milionarie provenienti da enti pubblici e privati, gestiva le sue finanze in modo creativo, nonché vantaggioso per lo stesso Kendi. I vertici nazionali di Black Lives Matter – un movimento che pure ha avuto meriti evidenti e concreti nella mobilitazione globale contro il razzismo – nel 2022 sono ritrovati al centro di pesanti critiche dopo che un articolo del New York Magazine ha rivelato che avevano acquistato una villa da 6 milioni di dollari nella California meridionale con parte dei soldi donati alla causa antirazzista. 

Ma anche senza addentrarsi in scandali finanziari, oggi chi parla a nome di un gruppo legato da specifici marker identitari non sembra più destinatario di quegli assegni in bianco di fiducia che gli (o le) venivano destinati fino a poco tempo fa: l’influ-attivista, com’è diventato noto nel frattempo, oggi attira sguardi perplessi di utenti che non sanno più dove porre il confine tra l’alleato che lotta per il nobile fine identitario e la pedina nel sistema mediatico capitalista che, a distanza di una storia di Instagram, promuove questo o quel prodotto o chiude un occhio sul comportamento non irreprensibile della multinazionale o del gruppo di potere con cui collabora. Se Chiara Ferragni è caduta, con lei è rovinato al suolo un intero sistema comunicativo che ci aveva illuso di mostrare personaggi pubblici senza filtri, che abbiamo preso per buoni, eticamente onesti e politicamente genuini nei loro obiettivi dichiarati (come se le stesse piattaforme su cui li promuovevano non fossero gravemente distorcenti di per sé, con le loro personalizzazioni e frammentazioni fisiologiche).

Questi e altri segnali deboli ci dicono che l’età dell’oro della prospettiva identitaria – quella della proliferazione di influencer, specialisti di bon ton inclusivo e corpi intermedi pronti a farsi portavoce di istanze di gruppi sociali considerati come monolitici e immutabili, per riprendere le parole dell'autore del post citato nell’incipit – è in crisi. Ma il suo viale del tramonto sembra segnato anche da indicatori più solidi e oggettivi: la recente vittoria di Trump alle urne è facile da leggere nella sua componente di netto rifiuto della linea di divisione identitaria tracciata dai Democratici a partire dal 2020. E persino Kamala Harris e il suo entourage si sono distanziati dalle identity politics in campagna elettorale: lei ha detto di avere una Glock in casa, ha parlato ai Repubblicani moderati senza fare riferimento a un bagaglio di gergo identitario a cui fino a pochi anni fa  la sinistra sembrava inesorabilmente destinata (termini come il gender inclusive “Latinx” per i latinoamericani, “BIPOC” per le persone non bianche, “pregnant people” al posto di “women”), ha portato sul palco Liz Cheney. 

Yascha Mounk, autore del saggio The Identity Trap (Penguin Press, 2023) ha detto al New York Times che «la breve era di dominio incontestato [di queste teorie accademiche e attivistiche] sta giungendo al termine»: non perché gli statunitensi pensano che razzismo e oppressione siano improvvisamente scomparsi – i sondaggi dicono il contrario – ma perché anche a sinistra si è diffusa la percezione che alcune soluzioni proposte «non sono mai state molto popolari» fra il grande pubblico, per citare il Times. Prendendo ad esempio proprio Latinx, una ricerca di un assistant professor di Harvard, Marcel Roman, ha mostrato come negli ultimi anni una quota consistente di latinoamericani abbia virato a destra (com’è stato poi reso chiaro alle urne) anche per opposizione a un termine identitario visto come calato dall’alto dalle élite progressiste. Lo stesso Trump ha avuto vita facile nello sfruttare l’onda lunga dei problemi e i punti deboli generati da questo approccio settario: la sua inserzione politica più fortunata dell’ultima corsa alla Casa Bianca, la cui resa ha superato le più rosee aspettative della sua campagna, puntava sullo slogan «Kamala is for they/them. President Trump is for you». Transfobici  o meno – e certamente li erano – questi messaggi hanno avuto risonanza tra gli elettori, contribuendo a costruire l’immagine di una Harris espressione del partito della snervante ortodossia identitarista.

Per parlare della complessa epoca delle politiche identitarie, il sociologo Musa al-Gharbi nell’appena uscito We Have Never Been Woke (Princeton University Press, 2024) prende in prestito la definizione di capitale simbolico di Pierre Bourdieu per tratteggiare la figura del capitalista simbolico, il custode del capitale culturale contemporaneo, soggetto e oggetto del meccanismo di cooptazione delle élite che ricorre alla foglia di fico della giustizia sociale (quella per cui, come si dice, negli ultimi anni si è “passato” – o, per meglio dire, finto di passare – “il microfono” ad accademici, giornalisti e manager non maschi, bianchi, abili e cisgender dietro la quale proliferano quelle stesse disuguaglianze su cui si fonda il sistema economico corrente). «La volontà e gli interessi espressi dalle élite provenienti da gruppi storicamente emarginati e svantaggiati sono spesso significativamente e dimostrabilmente fuori sincrono con quelli della maggior parte delle popolazioni che pretendono di rappresentare», scrive al-Gharbi (ancora, l’esempio di Latinx in tal senso è illuminante; come lo è lo slogan defund the police, popolarissimo tra le élite woke a partire dal 2020 e scarsamente popolare tra gli afroamericani, come ha mostrato un sondaggio di quel periodo). 

Lo stesso autore nota come i compartimenti stagni delle teorie dell’identità hanno condotto, per una strana eterogenesi dei fini, a «una solidarietà ai minimi termini oltre i confini delle differenze, e a una ridotta volontà di fare sforzi di investimento redistributivo utili agli altri invece che a se stessi, o ai gruppi con cui ci si identifica». Il problema, si legge nel brillante saggio di critica delle ipocrisie dell’impianto del progressismo dell’ultimo decennio:

Non è che i capitalisti simbolici sono troppo woke, ma che non sono mai stati woke. Il problema non è che cause come il femminismo, l’antirazzismo o i diritti Lgbtq+ siano ‘sbagliate’. Il problema è che, nel nome di queste stesse cause, i capitalisti simbolici mettono in atto regolarmente comportamenti che sfruttano, perpetuano, inaspriscono, rinforzano e mistificano le disuguaglianze, spesso ai danni delle stesse persone di cui dicono di fare gli interessi. 

Le lenti distorcenti da cui noi capitalisti simbolici ci siamo messi a guardare il presente sono quelle che hanno incrementato, non ridotto, le disparità di cui ci siamo autoeletti vendicatori. Una frase benintenzionata come «trans women are women», pescando ancora da al-Gharbi, compone una retorica conformista dietro la quale i suoi stessi propugnatori la maggior parte delle volte non agiscono coerentemente, dimostrando nel concreto che le donne transgender sono indistinguibili dalle persone nate biologicamente donne. Da una parte a New York o San Francisco i figli privilegiati – questi sì – delle famiglie più ricche reggono cartelli di Black Lives Matter e chiedono giorni liberi per elaborare le vittorie elettorali della destra, ma dall’altra in quegli stessi luoghi – in quelle stesse strade, in quelle stesse aule – i veri appartenenti ai gruppi marginalizzati continuano a vivere ai confini della società del progresso, dormendo all’addiaccio sulle avenues o svolgendo lavori umili di consegne a domicilio o di pulizia degli spazi del campus (lavori per cui non sono previsti giorni liberi).

L’ipocrisia è vecchia quanto il mondo, e certamente non un’esclusiva dei capitalisti simbolici del nostro tempo. Ma questa particolare ipocrisia – questo scollamento, come si direbbe in un salotto televisivo post-elettorale – ha fatto danni ingenti, i cui bagliori  continuano a riverberarsi , anche se la luce originale si è spenta. È possibile che la notizia della morte delle identity politics sia fortemente esagerata, beninteso: una rondine non fa primavera, e il fatto che la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che due anni fa chiedeva scusa per non aver inserito i suoi pronomi «she/her» nella sua bio, oggi li abbia rimossi senza colpo ferire potrebbe benissimo essere quella che si dice una prova circostanziale. Ma qualcosa, stavolta, sembra davvero cambiato: e se così fosse, sarebbe una buona notizia per chiunque non abbia del capitale simbolico da spendere in prima persona come e dove vuole.

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