La fine del free speech in America


Direi che la liberazione della Palestina, dei palestinesi e del popolo ebraico sono interconnessi. Vanno di pari passo. L'antisemitismo e qualsiasi forma di razzismo non hanno posto nel campus e in questo movimento.

Queste sono parole di un pericoloso terrorista, secondo gli Stati Uniti d’America. Le ha pronunciate in un’intervista con CNN Mahmoud Khalil, studente siriano di origini palestinesi a New York dal 2022, dove si è trasferito per laurearsi alla Columbia University.

Khalil – che è sposato con una donna statunitense all’ottavo mese di gravidanza e possiede una green card per la residenza permanente negli Usa – è stato fermato come un ladro da un gruppo di agenti in borghese, che non si sono identificati e non hanno presentato un mandato, ed è stato in seguito trasferito in un carcere della Louisiana, il LaSalle Detention Center, «una struttura per persone migranti nota per le condizioni di detenzione crudeli, le violenze fisiche e sessuali e per le cure mediche inadeguate», secondo Amnesty International.

L’unica “colpa” di Khalil è aver coordinato con un ruolo di primo piano le proteste pro-Palestina avvenute nell’ateneo newyorkese dopo l’inizio della campagna militare di Israele a Gaza, mediando tra i manifestanti e i burocratici accademici.

Il Dipartimento di Sicurezza nazionale l’ha formalmente accusato di aver «guidato attività in linea con quelle di Hamas», ma senza produrre alcuna prova in merito. Secondo alcune sigle pro-Israele della Columbia, Khalil avrebbe fatto parte del Columbia University Apartheid Divest, un gruppo di attivismo che ha cercato di recidere i legami finanziari tra l’ateneo e il Paese di Netanyahu, ma sia lui che i suoi avvocati hanno negato coinvolgimenti su quel fronte.

Se anche dei coinvolgimenti effettivi ci fossero, va precisato, nulla renderebbe accettabile o spiegabile la deportazione illegale di un cittadino americano innocente: la Casa Bianca, mandante dell’arresto, ha spiegato che durante le proteste Khalil avrebbe dato spazio e diffusione a propaganda di Hamas, ma anche su questo versante non esiste alcuna prova.

Il commento più centrato viene dalla sua avvocata Samah Sisay: «Stanno cercando di renderlo un caso esemplare per impedire che altri sostengano le stesse posizioni». È proprio in quest’ottica che si svela il vero obiettivo della guerra per il free speech della destra di Trump: impedire lo speech scomodo, quello che mette in difficoltà il tiranno.

Per intenderci: certo, le università americane hanno davvero avuto problemi di antisemitismo nel contesto delle manifestazioni pro-Palestina; ci sono stati eccessi, episodi di violenza e casi dibattuti, come quello di Harvard. Ma questo non rende meno eccezionale, in senso del tutto negativo, la punizione inferta a Khalil: «Prendere di mira i singoli manifestanti solo perché protestano... è largamente insolito, e qualcosa che non avevamo mai visto prima, nemmeno sotto la prima amministrazione Trump», ha spiegato il professore di giurisprudenza alla Cornell Jacob Hamburger in un’intervista a BBC.

Da giorni Khalil, ha dichiarato la sua compagna, riceveva minacce e abusi online che «semplicemente non avevano rispondenze nella realtà» (come troppo di ciò che si legge online, aggiungo io): il 7 marzo, il giorno prima dell’arresto, lo studente aveva chiesto una consulenza legale urgente alla Columbia. All’università, intanto, una task force voluta da Trump ha tagliato 400 milioni di dollari di fondi federali per non aver agito per proteggere i suoi studenti ebrei, ma sapendo benissimo che questa mossa, dietro la sua giustificazione di facciata, colpirà anche studenti e ricercatori di fede ebraica.

Quella di Mahmoud Khalil è un’altra vicenda su cui testare anticorpi e contrappesi della democrazia liberale in America: l’ha notato anche il Financial Times – non esattamente una testata movimentista – in un articolo eloquentemente titolato «Je suis Khalil».

Tutte le foglie di fico della destra stanno cadendo come petali appassiti: la lotta contro l’antisemitismo online è già diventata un attacco coordinato contro Jesse Furman, il giudice «ebreo marxista» (aiuto) che ha bloccato il rimpatrio forzato dell’attivista pro-Palestina; i proclami per la libertà d’espressione, beh, si sono rivelati quel che sono sempre stati, da quelle parti: diversivi per far dire a Trump, Musk e i loro accoliti quel che vogliono, tra una televendita di Tesla e l’altra, senza troppi grattacapi.

Il free speech è un tema così vicino al cuore del gruppo politico che ha preso in mano le redini di Washington che anche i media non allineati, fin dal giorno uno della nuova amministrazione, sono diventati presenze sgradite: con un ordine esecutivo di poche ore fa, Trump ha decretato la fine di Voice of America, un network radiofonico a diffusione internazionale fondato per contrastare la propaganda nazista durante la Seconda guerra mondiale, definendolo «estremista» e «anti-Trump».

Aggiungiamolo ai già noti ban di Associated Press – colpevole di non essersi adattata all’infantile ridenominazione del golfo del Messico in «golfo d’America» – e di Reuters, o anche alla decisione di rescindere gli abbonamenti governativi ai media considerati ostili, e il panorama diventa ancora più chiaro: la stessa indipendenza dei media – già peraltro sotto attacco conservatore fin dal primo mandato di Trump, per espressa volontà del capo – è un fattore di rischio che il nuovo corso autoritario del Paese non può permettersi.

Si tratta di uno scivolamento deciso – se non già in fase di assestamento – verso l’autocrazia, rimettendo in discussione tutti i principi legali e politici su cui si fonda la democrazia americana. Non è possibile raccontarsi storielle in merito: Trump ha un piano liberticida che sta mettendo in atto dal primo giorno in carica, sbalzando di sella ogni peso e contrappeso del sistema politico del Paese che l’ha eletto. Con un vocabolario applicato ad altre parti di mondo, seguendo questa direzione gli Usa meriterebbero in toto la vecchia definizione di “Stato canaglia”.

È una deriva, quella americana, che sta già mostrando riverberi in tutto il mondo, dato che l’attuale presidente è di fatto garante e volto di una lega internazionale di riscossa reazionaria che pesca dalla propaganda sulle guerre culturali e dalla disinformazione sistematizzata ed elevata a prassi istituzionale, facendo proseliti e battezzando gruppi di pressione a ogni latitudine.

Considerato nella sua totalità, questo scenario delinea un nuovo livello di attacco alla democrazia, inaudito persino per Trump: nemmeno l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, un evento in sé estemporaneo, poteva configurarsi come un’erosione così consapevole, progressiva e sistematizzata delle garanzie costituzionali americane.

Gli effetti deleteri di questa cascata di assalti alla diligenza, per assurdo, stanno colpendo anche la popolarità dei Democratici, che hanno raggiunto i loro livelli minimi di consenso nei sondaggi: dati che rispecchiano la delusione degli elettori verso rappresentanti eletti che si trovano disarmati di fronte all’avanzata antidemocratica del GOP di Trump (opporsi a politiche illegali antidemocratiche rimanendo nell’alveo della legge e della democrazia, in molti casi, è difficoltoso e porta a figure da spettatori non paganti).

Cosa può fare la sinistra americana ora? Per fortuna, intanto, va chiarito che l’arresto di Mahmoud Khalil non è rimasto senza conseguenze e privo di opposizione: diversi network attivistici e studenteschi si sono attivati per manifestare contro il suo rimpatrio illegale, da New York a diverse altra grande città.

Quanto alla bigger picture: beh, è complicato. I processi contro gli ordini esecutivi e le politiche da caudillo di Trump si trovano ancora in una fase embrionale – anche se qualcosa si muove: mercoledì scorso un tribunale ha stabilito che il tentativo della Casa Bianca di restringere lo ius soli è illegale, rimandando il caso alla Corte Suprema – e molti politici (non tutti) sono ancora in cerca della strategia migliore per rispondere alle svolte autoritarie di Trump.

Per cominciare, è bene tener puntati i riflettori su queste decisioni, su questo clima di censura fascistoide e di diritti violati con la voce grossa della burocrazia governativa: non sarà una ricetta che basterà da sola, ma è un inizio.

Altre news dal fronte

  • I muscoli mostrati con la Columbia sono il classico “colpirne uno per educarne cento”, scrive l’Harvard Crimson;
  • Una dottoressa libanese esperta di trapianti dei reni (ripeto: di trapianti dei reni) è stata deportata da quelli che – giuravano – se la sarebbero presa coi criminali.
🫰
Se non vuoi o puoi abbonarti, supporta la newsletter con un piccolo o piccolissimo contributo una tantum: fa la differenza, credimi.
Evviva! Hai completato l’iscrizione a Culture Wars. La correzione del mondo
Daje! Ora dai un’occhiata e considera di passare alla versione premium.
Errore! Iscrizione impossibile a causa di un link non valido.
Bentornato/a! Login effettuato.
Errore! Login non andato a buon fine. Per favore, riprova.
Evvai! Ora il tuo account è attivo, hai accesso a tutti i contenuti.
Errore col checkout via Stripe.
Bene! Le tue info di fatturazione sono state aggiornate.
Errore! Le tue info di fatturazione non sono state aggiornate.