Di recente l’Economist ha pubblicato un articolo dal titolo dissonante rispetto al suo standard: Why young men and women are drifting apart, ovvero «Perché i ragazzi e le ragazze si stanno allontanando».
Nell’analisi si spiega che in larga parte del mondo industrializzato sta avvenendo, perlopiù in sordina, una mutazione antropologica potenzialmente epocale: pescando dati resi disponibili dallo European Social Survey, dal General Social Survey statunitense e dal Korean Social Survey, il settimanale britannico ha notato che nella fascia d’età 18-29 anni uomini e donne non sono mai stati così in disaccordo fra loro.
Nello specifico, nei dati aggiornati al 2020 tra i maschi di quell’età si registrava una leggera preferenza per il posizionarsi sullo spettro politico dal lato dei progressisti, mentre le femmine erano decisamente più a sinistra, con una differenza di ben 27 punti percentuali. La divergenza di vedute registrata valeva il doppio di quella fra gli istruiti a livello universitario e i senza laurea, per dare un termine di paragone.
Scriveva lo stesso Economist:
In tutti i grandi paesi esaminati, i maschi sono risultati più conservatori delle femmine. [...] Uomini e donne hanno sempre visto il mondo in modo diverso. Ciò che colpisce, però, è che si è aperto un abisso nelle opinioni politiche, poiché le donne più giovani stanno diventando nettamente più liberal, mentre i loro coetanei maschi no.
Su questo articolo si è innestato un interessante dibattito, corredato da qualche tentato debunking della lettura offerta (l’Atlantic, per esempio, ha scritto che se diversi studi mostrano che i giovani uomini e le giovani donne sono in rotta di collisione, «almeno altrettanti suggeriscono che il divario sulla base del genere è stabile. Ed è difficile trovare alle urne la prova di un gap crescente. La guerra dei sessi della Gen-Z, in altre parole, probabilmente non è apocalittica») ed è possibile che le sue conclusioni siano affrettate, o persino ingigantite.
Quel che appare più importante, tuttavia, è che i dati portati dall’Economist smentiscono, o almeno ridimensionano, alcune narrazioni sulla gioventù a cui siamo assuefatti in quanto semplici, monodimensionali, preconfezionate.
Il gap di cui discutere è anzitutto culturale, ricorda giustamente la testata. A un campione di giovani di 27 paesi europei è stato chiesto quanto concordassero con l’enunciato «la promozione dei diritti delle donne e delle ragazze è andata troppo oltre e mette a rischio le opportunità degli uomini e dei ragazzi»: i maschi, non sorprendentemente, si sono rivelati più propensi delle femmine a essere d’accordo con la frase, ma soprattutto i Gen-Z si sono dimostrati più tenacemente antifemministi degli uomini più anziani.
Traendo un parallelo con un dato meno uniformato alla prassi scientifica, alle giovani donne di quel campione sondaggistico si sarebbe potuta porre un’altra domanda, oggi incredibilmente attuale: «Se fossi sola in un bosco, preferiresti incontrare un uomo o un orso?».
Dello scenario ipotetico a cui TikTok ha regalato milioni di visualizzazioni e migliaia di titoli in questi giorni si sta parlando già abbastanza, ma la storia in sé evidenzia che qualche intuizione, l’articolo di cui sopra, l’ha avuta: scostando il punto focale della critica alla condizione femminile in una società tuttora modellata sugli uomini, l’ultima polemica di genere polarizzante che viaggia sugli algoritmi nucleari di TikTok racconta di un mondo in cui ragazzi e ragazze scavano trincee dietro visioni del mondo contrapposte, che talvolta diventano inconciliabili.
Viviamo nel mondo dei “redpillati”, giovani uomini che usano riferimenti a un film uscito al cinema prima della loro nascita per creare comunità rabbiose che dicono di aver scoperto di vivere in una società che li rende schiavi del femminismo e delle sue presunte storture; il mondo di Andrew Tate e dei suoi infiniti epigoni, anche italiani, che macinano migliaia e milioni di visualizzazioni su Twitch o YouTube trattando le donne come prede da collezionare o svilire; questa è la civiltà degli incel, e quella dove il rapporto con l’altro sesso, più che problematizzato, è reso impossibile da faglie di divisione acuite dalla compartimentazione strutturale dei social media. Not all men da una parte, tweet tendenziosamente virali sui ginecologi e gli uword (uomini, sì) dall’altra.
Insomma, sembra che un problema di fondo esista eccome, nel senso delineato dall’inchiesta dell’Economist. E il modo migliore per affrontarlo forse potrebbe partire da una sana dismissione di alcuni fra i luoghi comuni più popolari dell’opinionista medio da feel-good Facebook: no, la Generazione Z non è invariabilmente buona, educata, progressista. Anzi.
Ricordo ancora cosa mi è scattato nella testa quando, non troppo tempo fa, ho letto un post di un contatto su Facebook che diceva più o meno: l’altro giorno sull’autobus ho origliato una conversazione tra giovani teenager che parlavano di un amico transgender; uno l’ha misgendered, usando il pronome sbagliato, l’amico l’ha corretto e il primo ha protestato dicendo che stavano parlando fra di loro, che problema c’era. E l’altro, perentorio: è una questione di rispetto. Il mio contatto traeva da questa scenetta un sospiro liberatorio: meno male che i giovani oggi crescono così.
Ok, devo essere sincero: il primo pensiero che mi è scattato è stato questa cosa non è mai avvenuta, era lo spunto per comporre un post gramelliniano. Ma non ne sono orgoglioso (anche se su Reddit esiste un intero canale dedicato agli improbabili racconti formativi di precoce progressismo, r/WokeKids). Meglio parlare del secondo, che è stato: i giovani non stanno affatto crescendo così. Stanno crescendo anche – non dico soprattutto – coi mattoncini nel nome utente e un’ironicissima insofferenza per il femminismo, o in comunità della manosphere in cui il collante ideologico è l’avversione per qualunque forma di emancipazione femminile.
Che stia accadendo con un punto percentuale in meno o due in più, i giovani uomini e le giovani donne stanno prendendo direzioni opposte, anche perché il loro rapporto col mondo è mediato da piattaforme nate per profilarli, allontanarli dalla realtà e portarli a discutere per giorni della pericolosità degli orsi. Possiamo raccontarcela diversamente e fare finta che questi meravigliosi ragazzi risplendano del sol dell’avvenire di un progressismo inevitabile, ma l’unica cosa che ne caveremo, credetemi, sarà il like di qualche vegliardo come noi.
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