“Era educato, includeva sempre”


Uscirà un remake di Biancaneve diretto da Greta Gerwig, la regista che ci ha appena regalato quell’onnipresente Barbie che, unito alla piacevole temperatura media di quarantadue gradi centigradi, sta rendendo più che gradevole questo luglio.

La stampa mainstream, dopo la diffusione delle prime immagini del prossimo film a opera dell’ineffabile Daily Mail, si è prevedibilmente gettata a pesce sul rifacimento «politicamente corretto» del classico Disney, dettagliando la polemica seguita alle scelte della produzione di rimpiazzare i sette nani con figure attoriali non-nane e improntate alla diversità etnica e di genere, nonché di levare di torno il principe, di modo che ora Biancaneve possa «salvarsi da sola».

Specularmente, di conseguenza, il nuovo bailamme socialmediale sul tema dell’aggiornamento di un’opera classica ha portato intere falangi progressiste a schierarsi a testuggine, preparandosi all’assedio: e allora vai col valzer di spiegazioni, anche puntuali, di come già la versione di Biancaneve dei fratelli Grimm fosse molto diversa dalla fiaba originaria; di distinzioni tra fiaba e favola; di inviti un po’ indignati a considerare che è normale che le storie si adattino ai tempi. Eccetera, eccetera.

Ora, sul tema personalmente mi sono già espresso altre volte: dal caso dell’espunzione dei termini “proibiti” dai romanzi per bambini di Roald Dahl in poi, fino a ciò che ne La correzione del mondo ho definito «effetto Biancaneve»: quella tendenza un attimo – ma proprio un attimo – morbosa di certo conservatorismo internazionale a ingigantire la portata e gli effetti delle versioni “rivedute” dei classici, inquadrandoli come più ampi piani di distruzione indiscriminata della tradizione occidentale.

Va precisato che nell’esempio a cui mi riferivo nel mio saggio si trattava del caso costruito attorno all’articolo apparso su una piccola e ininfluente rivista californiana, mentre qui abbiamo una milionaria produzione hollywoodiana finanziata da Disney; e sì, suona quantomeno ridicolo che la megacorporation dell’intrattenimento abbia commentato di aver rimosso i nani di Biancaneve in seguito a un «confronto con la comunità delle persone affette da nanismo»: chi sono i portavoce di questa comunità? Chi li ha individuati, e come? A che conclusioni ha portato il dialogo? Domande retoriche, ovviamente: basta dire di aver ascoltato e incluso, e il gioco è fatto.

Nel frattempo sul pianeta Terra, lontano dalle indignazioni e contro-indignazioni algoritmiche di Twitter, Instagram e TikTok, a Hollywood sta andando in scena il più grande sciopero delle maestranze del cinema e della tv che si sia visto da tempo: il Sag-Aftra, il sindacato degli attori, presentatori e addetti ai lavori dello spettacolo, è in agitazione da una settimana per una serie di richieste presentate all’associazione dei produttori hollywoodiani, la potente Alliance of Motion Picture and Television Producers (Amptp), di cui fa parte Disney.

Tra le altre richieste, come è stato riportato, figurano anche quelle di far rispettare il diritto a fare pause di lavoro sul set e di permettere agli attori e alle maestranze di avere sufficienti giorni di riposo: entrambe sono state rigettate senza tanti complimenti dagli studios.

A questo è bene aggiungere che Disney si è distinta per un approccio radicalmente antisindacale in quest’ultimo periodo, concretizzatosi in pressioni indebite su sceneggiatori e showrunner in stato di agitazione. Citando dal Manifesto:

Disney ha inviato una comunicazione agli showrunner avvertendoli che i loro impegni con lo studio continuano – «nonostante lo sciopero» – perché essendo dei produttori i loro compiti non sono legati alla scrittura.

Bob Iger, il Ceo di Disney, che guadagna più di 25 milioni di dollari l’anno, ha definito «molto inquietante» la sindacalizzazione in atto a Hollywood, e si è parlato di un presunto piano della (anche) sua Amptp di mandare sul lastrico gli sceneggiatori per poterli spremere meglio.

A fronte di tutto questo, come mi fa sentire che Disney abbia avviato un «confronto con la comunità delle persone affette da nanismo»? Beh, più o meno come uno lasciato a casa dal capitano d’industria di turno mentre quest’ultimo è in procinto di acquistare in comodità la sua sedicesima Ferrari, e che di lì a poco sente il commendatore far sfoggio di virtù in prima serata: questo è un modello che non inquina, sapete?

Quel che voglio dire è che oggi ci vuole poco, drammaticamente poco a mettersi a disquisire di Mammolo e Pisolo, rispondenza alle fiabe e pro e contro di schermaglie simboliche e culturali (lo fa settimanalmente persino una newsletter non poi così brillante di un tipo che conosco, figurati!).

Però va tenuto a mente che al di fuori di quei simboli c’è ancora, anzi soprattutto, il mondo reale: e se in quel mondo una multinazionale maltratta i suoi dipendenti o mette i bastoni fra le ruote alle loro lotte di riconoscimento salariale, non mi interessa nulla della sua presunta intenzione di (cito) «trovare nuovi approcci» a una storia di una principessa che mangia una mela avvelenata.

Perché i suoi «nuovi approcci» sono uno specchietto per allodole: le permettono di farsi bella davanti a una nicchia, nella migliore delle ipotesi, o di lucrare sull’eco dell’indignazione social che generano i prodotti “divisivi”, nella peggiore. Ma gli approcci veri e propri, quelli che contano davvero, rimangono gli stessi: quelli di un sistema che sfrutta le persone, le mastica e le sputa a suo piacimento. Un sistema che oggi ha sposato questi valori perché in questo momento gli conviene per arricchirsi, e domani ne sposerà di antitetici: saremo ancora lì a dire “bravo, com’è sensibile lei” all’ipotetico commendatore?

Altro che inclusione, altro che correttezza. Questa non è una fiaba, né tantomeno una favola: torniamo sulla Terra, il posto in cui fino a non molto tempo fa contava più quel che facevi che le virtù che sciorinavi.

Altre news dal fronte

  • I miei 2 centesimi sulla polemichetta Twitter sull’asterisco nel post sulla legge per il diritto all’aborto: chi usa quei segni grafici è largamente benintezionato e in buona fede, ma quel che dice Anna Paola Concia non è affatto un prestare il fianco alla propaganda di estrema destra, come ha detto qualche minion; al netto del resto, una donna oppressa dalla mancanza di legislazione in favore delle cure abortive ha tutto il diritto di voler leggere «donna», che è un termine con un portato politico e di rappresentanza. La questione è difficile ed esiste: non riduciamo tutto a tifo e squadrette, suvvia;

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