Una scuola normale
Nei giorni delle feste, tra un panettone e un tampone, ha tenuto banco la solita polemica (sul «solita» torniamo a breve) a tema inclusività: Guido Vitiello, firma de Il Foglio e docente dell’università La Sapienza di Roma, ha twittato un breve video tratto dalla cerimonia di consegna dei diplomi alla Scuola Normale di Pisa. A parlare è Nicolò Campodonico, rappresentante degli studenti di Lettere e filosofia, che dice:
Il malessere diffuso nel corpo studentesco ha origine in alcune dinamiche tossiche che nascono e prosperano nell’ambiente della Normale. Quando entriamo al corso ordinario superiamo una selezione, attraverso la quale si crea uno spazio omogeneo dove le soggettività neutre sono maschili, bianche, abili, cisgender e conformi alle aspettative di una società eteronormata
Definisco la polemica «solita» perché è ciò a cui i social media (e Twitter in particolare) ci hanno abituato, e che si ripresenta regolarmente e con un copione inalterabile: qualcuno posta un commento più o meno salace su un argomento “sensibile”, si formano due fronti che non vedevano l’ora di usarlo per confermare la bontà dei rispettivi manicheismi, i suddetti iniziano a prendersi a scudisciate digitali, et voilà, lo shitstorm è servito.
Vitiello non è nuovo a occuparsi in modo critico di questi temi (qui, per esempio, trovi una sua critica della dottrina intersezionale), e col suo commento ha ottenuto l’immaginabile schiera di variazioni di «ecco l’ennesimo maschio bianco etero cis che ridicolizza l’attivismo». E certo, a ben vedere il suo tweet non aggiunge molto al difficile discorso toccato dal rappresentante degli studenti. Ma è un tweet: e così come scriverne uno con vaghi proclami inclusivi non rende automaticamente Desmond Tutu, postarne uno di pacato scherno tendenzialmente non fa altro che ciò che fanno le battute, cioè ridere, non ridere, nei casi peggiori un po’ pena. Comunque nulla che meriti guerre civili, no?
A mio modo di vedere si dovrebbe riflettere, semmai, sul fatto che conversare in questo modo, di queste cose, su queste piattaforme è un ardimento che rasenta il masochismo: esiste una singola persona che sia riuscita a cambiare idea (o a far cambiare idea a terzi) a partire da un tweet contenente la parola «cisgender»? E il problema non è mica la parola in sé, eh: è il modo, il contesto, il fine con cui viene troppo spesso usata.
Secondo punto, direi dirimente: il video postato da Vitiello dura pochi secondi. Cos’è successo dopo? Dove voleva andare a parare Campodonico? Quali sono le «dinamiche tossiche» che cita? In cosa si concretizzano, a Pisa, le «aspettative di una società eteronormata»? Chi – e quante – sono le vittime?
Nella fretta di mettere in piedi le due squadre per il calcetto del giovedì, nessuno si è chiesto se Campodonico abbia semplicemente ripetuto formule vuote “inclusive” che allo stato dei fatti appartengono soprattutto a un club ristretto e privilegiato, oppure se ha qualcosa da dire, e magari qualcosa di supportato da fatti, dati e prove di «malessere».
Ragione per cui mi sono trovato a compiere un atto rivoluzionario: scrivergli per chiederglielo. Lui purtroppo non ha voluto tornare sul tema, una scelta che capisco e rispetto. Mi ha risposto, però, che «il discorso in questione è stato scritto collettivamente dalle allieve diplomande e dagli allievi diplomandi in Lettere della Normale», e anche: «Il nostro intento era di rivolgerci alla comunità interna alla Scuola Normale in particolare e abbiamo unanimemente deciso di non impegnarci in altre discussioni». Il che mi pare un intento lodevole (nonché, di questi tempi, non scontato).
C’è anche il tema dell’efficacia e la condivisione, per così dire, di questo linguaggio. Una ricerca della rivista Jacobin e YouGov, che si è chiesta come rilanciare la sinistra esaminando i pattern di voto della classe operaia statunitense, ha trovato che quest’ultima preferisce candidati progressisti che si occupano di questioni economiche inquadrate in termini universalistici: lavoro, reddito, ricchezza. Nella stessa ricerca, ha scritto il docente Filippo Barbera sul Manifesto, emerge che «le questioni identitarie e i diritti civili, inoltre, vanno sempre collegati a quadri più generali e mai giocati come carte jolly». Non significa necessariamente che non si possa dire «cisgender», intendiamoci, né che si debba scegliere tra le due cose, è evidente: però forse un po’ di elasticità nell’approccio aiuterebbe, da una parte e dall’altra.
Per parlare di una delle due parti, per finire – quella “inclusiva” – ho trovato a suo modo sintomatico il bailamme sorto attorno a una risposta ottenuta dal tweet di Vitiello, quella della Fondazione Einaudi.
Un’altra battuta, forse evitabile, che ha fatto arricciare il naso a chi non ha gradito il riferimento ironico ai lavori forzati. La cosa strana, ma molto interessante, è che tanti degli stessi che l’hanno ricondivisa per condannarla si sono messi a ristabilire la giustizia scherzando... sui gulag. Logica vorrebbe che i riferimenti ai campi di lavoro o fanno ridere sempre o non fanno ridere mai: e però su Twitter si è sempre drammaticamente simili a ciò che si odia.
Lindsay Ellis non esiste
La cosiddetta cancel culture: esiste? Non esiste? Solo nei giorni pari? È di destra? Di sinistra? Vota Calenda? Che palle. Se riuscissimo a sgombrare il campo dalle gincane asinine a cui ci costringono questi dibattiti, scopriremmo che c’è un mondo là fuori. Ed è un mondo in cui a volte sì, succedono cose riprovevoli, anche in nome di malintesi valori di uguaglianza e inclusione (chiunque può fingersi ciò che non è, a parole: è bene tenerlo a mente).
Entri Lindsay Ellis, youtuber 36enne che si occupa di cinema e negli anni ha accumulato 1,2 milioni di iscritti al suo canale. Il 28 dicembre Ellis ha postato il suo ultimo tweet, contenente il link a un articolo pubblicato sul suo account Patreon in cui dice addio ai suoi sostenitori e al pubblico, dopo anni di carriera.
Cosa ha portato Ellis a scappare dai social network? Beh, un tweet innocuo postato una mattina, senza darci troppo peso. Risale a marzo, anche se ora risulta cancellato, ma diceva testualmente:
Also watched Raya and the Last Dragon and I think we need to come up with a name for this genre that is basically Avatar: the Last Airbender reduxes. It's like half of all YA fantasy published in the last few years anyway
Il riferimento è a Raya e l'ultimo drago, film d’animazione Pixar uscito nella primavera di quest’anno ambientato in un regno fantastico popolato da draghi. Se non stai capendo, non sei il solo: ma ci viene in aiuto uno dei primi tweet postati dalla youtuber dopo l’accaduto, quando già al posto dei draghi volavano gli shitstorm.
In sostanza: i suoi copiosi critici hanno visto nel primo tweet di Ellis un’uscita razzista soltanto perché accostava Raya, un personaggio ispirato alla cultura asiatica, a un altro prodotto legato a questo immaginario, Avatar - La leggenda di Aang. E questo è bastato per renderla vittima di abusi seriali, martellanti pretese di abiure e altre spiacevolezze capaci di minare la serenità di una persona (che infatti, in questo caso ha prima cancellato il suo account Twitter, e poi detto in un video contrito: «You shouldn't tweet in the morning. You shouldn't tweet at all. Nobody should tweet»).
Oggi Lindsay Ellis ha gettato completamente la spugna, citando nel titolo del suo intervento di commiato la short story distopica di Ursula Le Guin Quelli che si allontanano da Omelas, e noi potremmo anche dire chissenefrega: troverà altri lidi in cui esprimersi. Ma un mondo in cui le persone innocenti vengono molestate perché hanno postato un tweet evidentemente innocuo e malinteso non è, come dire, un mondo altamente sotto la soglia della sufficienza?
Il pessimo Michael Hobbes – tra i peggiori riduttori del discorso a un falso “è solo un fantasma della destra” nel mare magnum del giornalismo americano – ha già fatto un parziale dietrofront sulle sue convinzioni storiche, spiegando che c’è bisogno di una «conversazione adulta» su ciò che i social network stanno rendendo l’essere un personaggio pubblico. Ma è too little, e probabilmente too late: se siamo rimasti concentrati sul dito dello spauracchio delle quinte colonne della destra anche con chi faceva un discorso dalle rispondenze immediatamente riscontrabili, nel frattempo la Luna degli abusi e dell’ecosistema tossico ha continuato a percorrere la sua orbita.
La cancel culture non lo so, ma Lindsay Ellis esiste: vogliamo occuparcene, o rimaniamo fermi sul «chissenefrega», finché non toccherà a un amico nostro?
Buoni propositi
Siamo già andati lunghi, e tu giustamente non vedi l’ora di andare a seguire la diretta del Capodanno di Amadeus in piazza a Matera (si fa anche quest’anno, quella roba lì? Che dice il Cts?), questa sezione la manteniamo breve: ci metto un po’ di cose che mi auguro il 2022 ci farà vedere in questo campo, pur sapendo che probabilmente rimarrò deluso.
Spero, insomma:
- che la discussione sulle piattaforme a cui diamo troppe ore delle nostre vite diventi qualcosa di appena appena più civile, sensato, sensibile – anche se purtroppo non ho ricette magiche in tal senso;
- che l’attivismo sia considerata una cosa ben distinta dal fare la conta di like ed engagement, dallo scagliare pietre sul/la primo/a che passa e dal mettere il proprio ego davanti alle cause che si sostiene;
- che l’inquinamento del dibattito e la relativa polarizzazione tra “vogliono rubarci il Natale e costringerci a cambiare gender” e “tutti i liberal sono nazisti in disguise” trovi una pacificazione, o almeno un po‘ di sale in zucca;
- che tutti possano esprimere se stessi e il proprio talento, la propria identità e la propria arte senza limiti, censure, preoccupazioni, rischi e paura;
- che la «carità interpretativa» diventi un principio-bandiera capace di guidarci nei nostri tweet, post e Stories. Perché non sono solo messaggini, e non è vero – non lo è mai stato – che il loro unico effetto è dare voce a tutti.
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Ciao, buon 2022!