Quello di Robin DiAngelo è un nome che ha avuto un’influenza smisurata sulla cultura statunitense degli ultimi anni: 67 anni, californiana e professoressa di scienze dell’educazione alla University of Washington, DiAngelo nel 2018 ha pubblicato White Fragility (in italiano Fragilità bianca. Perché è così difficile per i bianchi parlare di razzismo, Chiarelettere), che due anni dopo, a partire dalle manifestazioni seguite all’uccisione di George Floyd, è diventato uno dei titoli – se non il titolo – simbolo dell’antirazzismo americano.
Dal successo internazionale di quel saggio – che ha venduto milioni di copie soltanto negli Stati Uniti – Robin DiAngelo si è rapidamente tramutata in un’intellettuale pubblica con un ruolo sempre più centrale: a dieci giorni dalla morte di Floyd era stata chiamata da Nancy Pelosi a tenere un discorso (su Zoom, visti i tempi che correvano) ai politici Democratici del Congresso, in cui secondo il New York Times aveva detto al suo uditorio, tra le altre cose:
Per tutti i bianchi attualmente in ascolto che pensano che non stia parlando con loro: vi sto guardando dritta negli occhi per dirvi: “Ce l’ho con te”. [...] Finché non farete i conti con la questione di cosa significa essere bianchi, continuerete a promulgare, intenzionalmente o meno, politiche e pratiche che danneggiano e limitano [i neri].
A partire dal 2020, DiAngelo ha tenuto un numero incalcolabile di workshop privati, conferenze, interventi in università pubbliche e non, ospitate organizzate da agenzie federali e corsi sulla “fragilità bianca” per privati o realtà come Microsoft, Google, Amazon, Coca-Cola, Nike e Goldman Sachs.
Ma spesso ad ascese accelerate si accompagnano cadute rovinose: tra la fine di agosto e l’inizio di questo mese, un reclamo formale depositato presso il suo ateneo accusa DiAngelo di aver plagiato diverse parti della sua tesi di dottorato del 2004, intitolata Whiteness in Racial Dialogue: A Discourse Analysis.
La storia, riportata dal giornale conservatore The Washington Free Beacon, che non è nuovo a quest’attenzione per le star del progressismo cosiddetto woke – e gli habitué di questa newsletter sanno che di persone del genere, comunque, è bene diffidare – ha riacceso la discussione sullo scarto tra principi ostentati e condotta personale degli ideologhi dell’inclusione: nella sezione «Accountability» del suo sito, DiAngelo dice agli «altri bianchi» che devono «citare e dare sempre il giusto credito al lavoro delle persone BIPOC che hanno informato il vostro pensiero».
Lei stessa, però, pare non averlo fatto nella sua tesi di dottorato, dove figurano ampi passaggi indistinguibili da quelli scritti da altri accademici (alcuni appartenenti a minoranze, come Thomas Nakayama e Stacey Lee). Un caso che segue a ruota quello che l’anno scorso ha affossato un altro grande protagonista delle vendite della saggistica militante, Ibram X. Kendi (Come essere antirazzista, Mondadori), quando si è scoperto che il suo centro antirazzista ospitato dalla University of Boston, nonostante le donazioni milionarie ricevute, aveva una gestione finanziaria opinabile.
Da una parte queste storie di caduta dall’Eden del progressismo mettono sotto i riflettori le politiche DEI (acronimo di Diversity, Equity and Inclusion) da anni estensivamente utilizzate da corporation ed enti pubblici per aumentare la sensibilità sociale fra i suoi appartenenti, nei casi migliori, o rifarsi il look in senso inclusivo nei peggiori. La stessa DiAngelo nel 2021 era finita nell’occhio del ciclone dopo la pubblicazione della notizia di un corso per dipendenti di The Coca-Cola Company in cui i suoi insegnamenti si condensavano in frasi quali: «Essere meno bianchi significa essere meno oppressivi, meno arroganti, meno sicuri, meno sulla difensiva, meno ignoranti, più umili».
I detrattori di personaggi come Robin DiAngelo – quelli che vale la pena ascoltare, perlomeno: perché poi ci sono i professionisti dell’antiwokismo di marca trumpiana, appunto – sostengono che i dettami della cosiddetta critical discourse analysis, ovvero un certo approccio decostruzionista e militante a ogni piega della società e della vita quotidiana, hanno l’effetto controproducente di esacerbare le divisioni e le tensioni razziali, invece di contribuire a superarle con la sensibilizzazione ai bias. È una linea di critica che trovavo convincente anche prima che si scoprisse, in sostanza, che le star della wokeness made in Usa molto spesso predicano bene e razzolano male.
Nell’ultima puntata del suo podcast, la scrittrice Jessa Crispin dice una cosa che considero molto importante: le parabole di personaggi come DiAngelo e X. Kendi mostrano che, in fondo, «non ci importava così tanto» dei discorsi che gli abbiamo affidato; invece di mettere realmente in discussione i sistemi che hanno generato e perpetuato oppressioni di vario tipo, abbiamo preferito lavarci la coscienza dando qualche milione, una cattedra o un contratto di consulenza a una celebrity da citare in un carousel su Instagram.
E invece il mondo non funziona così: non basta avere la catecumena di turno che instilla riti di colpa ed espiazione a un parterre disposto a mondarsi dei suoi peccati, almeno superficialmente; ci vogliono cambi di paradigma, sforzi, mediazioni vere.
Nonostante quest’epoca cerchi disperatamente di convincerci del contrario, il progresso sociale non è assimilabile al marketing: nelle aziende contano i profitti – e, quando i profitti si incrinano, tutto il resto salta senza patemi – mentre nella società dovrebbe contare anche ciò che abita la mente delle persone. Altrimenti, hai voglia a parlare di fragilità bianca a un pubblico di top manager e dire che stai cambiando il mondo.
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