Ciclicamente la cronaca politico-culturale di questi tempi bizzarri si arricchisce di conflitti che nascono attorno alle cose più impensabili: conservatori convinti di dover difendere il Natale dalla correttezza politica; trumpiani incalliti che contestano Starbucks; progressisti leziosi intenti a fare le pulci a Pepé la puzzola; serissimi uomini di governo impegnati a censurare la uhm, propaganda gender di Peppa Pig.
Sempre più temi di attrito da culture war finiscono nei nostri feed e sui giornali che leggiamo svogliatamente, e sempre più spesso hanno a che fare con letterali cretinate. E chi siamo noi, dunque, per privarci del piacere di approfondire l’ultimo casus belli proveniente dagli Stati Uniti? Signore e signori, entrino i fornelli a gas.
Sì, avete capito bene: i conservatori d’America stanno uscendo di testa per il loro diritto inalienabile a cucinare con quelle simpatiche fiammelle blu. Ma andiamo con ordine: da almeno mezzo secolo gli studi a disposizione dicono che i fornelli non sono proprio un toccasana per la salute. Una ricerca recente, in particolare, descrive come le cucine a gas sarebbero dirette responsabili del 13% dei casi di asma infantile diagnosticati negli Stati Uniti; inoltre le loro concentrazioni di benzene, una sostanza cancerogena, non lasciano tranquilli. E poi, ovviamente, c’è la questione ambientale: le emissioni di metano che finiscono nell’atmosfera dalle nostre cucine ammontano a più di quanto si pensava, e solo negli Usa hanno un impatto annuale paragonabile alla CO2 prodotta da 500mila automobili.
Per tutti questi motivi, alcuni Stati americani stanno correndo ai ripari: in California, la città di Berkeley è stata la prima a rendere le cucine non a gas obbligatorie nella maggior parte delle nuove case ed edifici; poi l’hanno seguita San Francisco, Los Angeles e Sacramento, oltre che New York City. Ma la scintilla si è accesa (ops) lo scorso 9 gennaio, quando Richard Trumka, commissario della Consumer Product Safety Commission, l’agenzia federale deputata alla sicurezza dei prodotti in commercio, ha dichiarato che il suo ente stava considerando di emettere un divieto alla vendita delle cucine a metano, definite «un pericolo nascosto».
Non l’avesse mai detto: i Repubblicani hanno dato di matto, accusando direttamente Biden, la sinistra, chiunque di voler mettere le mani sui loro fornelli.
Questo è un onorevole texano, per capirci. Ma non è l’unico: c’è chi spiega di aver aperto a casaccio 5 fuochi senza dover cucinare come gesto di sfida, just to own the libs; Andrew Gruel, uno chef televisivo, ha pensato bene di legarsi con del nastro adesivo alla sua cucina a gas per protestare contro la proposta di divieto (peraltro già smentita); il governatore della Florida e possibile prossimo presidente degli Stati Uniti Ron DeSantis ha twittato la bandiera di Gasden con una cucina a gas al posto del serpente a sonagli; la senatrice Marsha Blackburn ha osservato che «un governo che può decidere che fornelli usi è un governo con troppo potere».
La domanda sorge spontanea: che problemi hanno gli americani? In senso lato, si direbbe molti; ma in senso stretto e relativo alle cucine a gas, la questione è anche culturale: l’industria del metano ha un settore di pubbliche relazioni molto efficace, spiega l’Economist, l’American Gas Association, che tra le altre cose pubblica ricette online. «Cooking with gas», lo slogan dell’associazione risalente addirittura agli anni Trenta, «è stato cotto insieme alla psiche americana», scrive il settimanale.
Et voilà, ecco che la propaganda dei conservatori online si è messa a scavare trincee attorno ai fornelli a gas, giurando che la sinistra è pronta a sequestrarli all’americano medio (spoiler: no). Viviamo tempi interessanti, sì.
#CultureWarsMeets torna facendo quattro chiacchiere con Bruno Montesano, studioso di politica e società e giornalista che questa settimana ha passato qualche giorno difficile su Twitter per aver scritto questo tweet:
🗣⚔️ Bruno, com’è che ti sei trovato, tuo malgrado, main character su Twitter l’altro giorno? E partiamo dall’inizio: cos'è l’intersezionalità? Perché secondo te è importante?
Ho condiviso l’intervista al manifesto a Elly Schlein definendo la sua proposta politica come di «socialdemocrazia intersezionale». Ha girato molto (250k+ visualizzazioni). Forse perché il tweet è stato commentato da qualche personaggio noto e da alcuni giornalisti apparentemente brillanti. E poi perché sembrava astruso e quindi, chi per divertirsi 5 secondi, chi perché reazionario, commentandolo lo hanno fatto circolare. L’espressione «socialdemocrazia intersezionale» l’avevo già utilizzata a inizio dicembre, in un thread contro l’antisemitismo latente – e spesso patente – di alcune critiche a sinistra a Schlein sul numero di passaporti che ha e il supposto patrimonio che (non) ha. Si può non essere convinti delle proposte di Schlein, ma il contenuto di molti attacchi non è politico, non riguarda il suo grado di anticapitalismo. Per socialdemocrazia intersezionale intendevo, come ho provato a spiegare, che si stratta di una proposta anti-neoliberale che però, invece, che puntare alla restaurazione della protezione keynesiana, mira a estendere i diritti a soggetti precedentemente non garantiti (donne, comunità Lgbt+, minoranze religiose, migranti). L’intersezionalità è un modo di leggere l’intersezione tra varie forme di oppressione. Classicamente razza, sesso, genere e classe. Ma si può guardare in modo intersezionale anche al rapporto tra queste dimensioni e la devastazione ambientale. Il termine ha una genesi contesa e diverse possibili applicazioni, più o meno radicali.
🗣⚔️ Faccio ammenda dei miei peccati: io stesso, pur senza volerlo, ho contribuito al montare della marea attorno a quel tweet, rispondendogli. Quali sono le risposte che hai ricevuto che reputi più fuori fuoco o direttamente assurde, e secondo te da cosa vengono?
Quella che mi irrita di più verte sul fatto che l’intersezionalità sia un concetto borghese, da sinistra Ztl: serve, al contrario, a guardare alla classe per quello che è e non in modo astratto e malinconico, retrospettivo. Il 9% della forza lavoro italiana è composto da stranieri, e produce 144 miliardi, il 10% del Pil (dati F. Moressa del 2022). Se possono accedere a fette più o meno ampie di welfare e al voto non è irrilevante. Se sono rappresentati come irrimediabilmente altri e minacciosi, ciò si riflette anche su quanto salario e quanti diritti possono rivendicare dove lavorano. Inoltre, chi lavora non per forza è eterosessuale e le donne, come noto, non sono una minoranza. I diritti riproduttivi hanno una dimensione materiale, contribuiscono a determinare i rapporti di forza sul posto di lavoro e nella società. Di solito, a questo errore prospettico – spesso ammantato del marxismo più triviale che usa la distinzione altrimenti complessa tra struttura e sovrastruttura come una clava – si accompagna la distinzione tra diritti civili e diritti sociali. Schlein, al contrario, propone di non dividerli, come invece buona parte del PD ha fatto in un verso e M5S nell’altro.
Specularmente, l’altra reazione fastidiosa è quella di sorpresa sarcastica da parte di chi sa benissimo di cosa si sta parlando. Così come si tende a negare l’esistenza del neoliberismo, così si fa con l’intersezionalità. Infine, è sciocca la posizione per cui la categoria di intersezionalismo non parlerebbe a chi vive nelle periferie di questo paese o a chi non ha «un’alta cultura». Franco Fortini, alle accuse di parlare complesso, di «non scrivere chiaro», diceva che non c’era alternativa. La chiarezza era rispetto a un contesto dato, di dominio, con una retorica «di regime», ideologica e naturalizzata. Se si voleva pensare e agire contro il presente e contro l’opprimente senso comune prodotto dall’industria culturale non bisognava parlare chiaro. Notava inoltre che spesso chi lamenta la scarsa chiarezza di solito ha capito benissimo ciò che dice di non capire e, paternalisticamente e con fini politici, tenta di squalificare la posizione avversaria relegandola nel cono d’ombra dell’incomprensibilità, o, peggio, dell’astrusità. Lui parlava dei giornali. Qui siamo a una discussione su Twitter.
🗣⚔️ In realtà, come sappiamo e come hai spiegato, fuori dai patri confini “intersezionale” non è affatto una sorta di supercazzola prematurata, ma una teoria di scienze sociali dibattuta. Per quale motivo da noi spesso la si liquida in due parole?
Come sulla cancel culture, in Italia c’è un dibattito molto provinciale e in malafede. Anche chi è esposto a dibattiti stranieri decide di fare polemiche demenziali (vedi la questione del bacio a Biancaneve) su dittature del pol.corr. che non ci sono. Alcuni seguono agende politiche che non esplicitano, altri sono pigri; altri, cinicamente, decidono di titillare gli umori più retrivi del paese, agitando inesistenti minacce totalitarie alla cultura e alla società occidentale.
🗣⚔️ Più che il termine in sé, personalmente trovo complicato il significato che gli si attribuisce, specie sui social: cioè – riassumendo in modo giocoforza un po’ grezzo – non la considerazione delle diverse direttrici di oppressione nel considerare le discriminazioni, ma il meccanismo della “patente a punti” che porta l’influencer-portavoce a fare il vigile urbano all’intersezione delle identity politics, decidendo chi passa prima con la sua auctoritas algoritmica. Tu come la vedi?
La discussione su universalismo e identità è molto complessa e ha una storia lunga. Non apprezzo il proliferare di microsigle identitarie e di pose ricattatorie per cui, in virtù della posizione soggettiva, si ha ragione e monopolio sulla parola. Credo che sia più interessante, denunciato il finto universalismo in cui viviamo che ha escluso e continua ad escludere vari soggetti, cercare di crearne uno concreto. Fare questo però significa prendere sul serio le specifiche condizioni di oppressione sulle linee di genere, sesso, razza e classe – e alle molteplici intersezioni che si determinano. Il rischio è quello di rafforzare queste identità: in un primo momento, ciò è comprensibile. Ma, successivamente, bisogna lavorare per sfumare le categorie e rompere le essenzializzazioni sorte nel primo momento, come sosteneva Frantz Fanon. Per evitare di creare nuove forme di oppressione ed esclusione.
🗣⚔️ Secondo te la teoria dell’intersezionalità ha chances di prendere piede nel mainstream progressista in Italia, magari proprio con Elly Schlein?
Non ho idea delle probabilità possibili. Mi pare tuttavia che nella società si possano rintracciare delle tendenze. Soprattutto, se guardiamo al lessico e alle pratiche di molti movimenti. Penso a Non una di meno, Fridays for future e Extinction Rebellion. Forse nei media digitali, in parte, queste categorie circolano di più. Schlein parla di intersezionalità, non è anticapitalista ma denuncia le diseguaglianze prodotte dal neoliberalismo (che purtroppo esiste, checchè ne dica Panebianco). Non è particolarmente radicale ma, contro una destra radicale postfascista come quella italiana e globale, e con un centro così imbelle come quello di Calenda e Renzi, e con un Pd così moderato e incolore – e una sinistra radicale così malmessa – mi sembra una buona proposta politica. È riuscita a coagulare delle forze intorno a sé. Vedremo fino a che punto saprà esserne autonoma.
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