La cancel culture di Francesco

Buongiorno, sono Davide Piacenza e questa è Culture Wars, che ogni venerdì parla di nuovi codici  e fatti & discorsi intorno al politicamente corretto e alle nuove sensibilità, cercando di prendere tutto con la dovuta serietà e ragionarci sopra senza troppi preconcetti.

Presto, se tutto va bene, qui arriverà qualche novità: stay tuned, come diciamo nel basso Piemonte. Ma ora cominciamo con l’edizione di oggi.


Papa Francesco e il Cantico dei cancellati

L’altro giorno ho letto su Facebook un post della mia collega Jennifer Guerra sulla cosiddetta cancel culture, che, dice, sta diventando la nuova «ideologia gender» sfruttata dagli ingranaggi della destra mondiale per mettere i bastoni fra le ruote alle minoranze e portare avanti programmi antidemocratici a ogni latitudine. Dopo aver citato l’esempio di Ordo Iuris, l’istituto di cultura legale dietro ad alcune tremende leggi reazionarie promulgate in Polonia (su tutte, quella che ha istituito le zone “Lgbt-free”, che avevamo raccontato su Wired quando ne ero redattore), Guerra scrive:

Sarebbe bello se prima di parlare di cancel culture si avesse il quadro completo della situazione. Poi ognunə sceglie dove investire le proprie energie: se lottare contro le inesistenti censure della Disney e contro qualche altro spauracchio, o se contro organizzazioni religiose reazionarie e antidemocratiche, con un’influenza reale sulle decisioni politiche.

Tanto la prima parte dell’intervento mi era piaciuta, e avevo apprezzato l’individuazione di un lato importante del dibattito sul tema, tanto questo finale mi ha fatto storcere il naso: possibile che l’intera dialettica sul politicamente corretto, la più definente della nostra epoca, si possa ridurre alla sola contrapposizione tra le lotte contro «le censure della Disney e altri spauracchi» e quelle «contro organizzazioni reazionarie e antidemocratiche»? Davvero è l’unica scelta di campo possibile e ammissibile?

Beninteso, le frottole su fantomatiche “censure” dei cartoni animati esistono eccome, e vengono rilanciate anche dalla stampa italiana. E di certo esistono pericolose macchinazioni antidemocratiche della destra, italiana e internazionale.

Ma non è affatto vero che le parti in causa si possano ricondurre sempre a quelle due posizioni: anzitutto ci sono persone che temono e combattono, e in proporzioni diverse, sia gli organismi antidemocratici e para-fascisti che gli opportunismi e gli eccessi giustificati in senso “inclusivo”, i quali peraltro non producono affatto soltanto polemiche sghembe su Biancaneve, ma talvolta anche conseguenze serie ai danni di persone innocenti (qui qualche esempio documentale, se mi concedi l’auto-link).

Bisognerebbe aggiungere poi, che fare cultura e occuparsi di cultura significa anzitutto guardare ai modi e ai metodi di creazione di pensiero condiviso nella società: se nella cultura occidentale attuale il tic della “cancellazione” e della segnalazione perenne – che poco ha a che fare con la pantomima complottista che ne fa la destra, e molto con la tecnologia e le sue ricadute sulla psiche umana – risulta un fenomeno diffuso, per quale motivo non dovremmo parlarne? «Il gioco della destra», se si fa, si fa nei fatti: chi sostiene il ddl Zan e non è d’accordo col rovinare la vita a una youtuber per un tweet malinteso, per fare un esempio semplice, continua a tirare l’acqua ai mulini progressisti.

Questo ampio preambolo per dire che, letto il post di Guerra, mi sono messo il cuore in pace, dicendo a me stesso che presto la realtà avrebbe inevitabilmente smentito il finale e la caratterizzazione del suo intervento. Ho pensato «presto», ma in realtà un primo elemento di maggiore complessità è arrivato addirittura prestissimo.

Nei suoi auguri al Corpo diplomatico per il nuovo anno, Papa Francesco si è inserito nello spinoso (qualcun altro dirà: estenuante) dibattito di cui sopra, definendo «una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche». E proseguendo:

In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi.

Non mi trovo particolarmente d’accordo con l’impostazione del «pensiero unico» scelta da Bergoglio – non ricordo di essermi mai trovato del tutto d’accordo con un Papa, finora, a dirla tutta – ma alcune parti del suo senso di fondo sono innegabili nella loro correttezza: in nome della malintesa ricerca di una nuova inclusione sociale, dice il Papa, in alcuni ambiti si finisce per analizzare la storia con le sole lenti moderne, il che è normale in certi casi (si pensi alla discussione sull’eredità di una figura storica) ma rischia di essere deleterio in altri, perché pensarsi al centro del tempo e delle vicende umane produce un errore prospettico.

Su un altro piano, inoltre, tornando all’inizio, non posso fare a meno di notare che si tratta dello stesso pontefice che in passato ha pronunciato parole (relativamente: parliamo pur sempre della Chiesa) rivoluzionarie sulle coppie omosessuali e sulle unioni civili, ed esternato preoccupazioni relative alle ascese sovraniste di Donald Trump e Marine Le Pen, diventando un imprevedibile idolo progressista. Molti hanno visto in Francesco un Papa “di sinistra”, nonché di certo in controtendenza rispetto ai suoi predecessori: e allora perché lo sentiamo concionare di «cancel culture»? Sarà forse «reazionario e antidemocratico» anche lui? La luna di miele col progressismo è finita?

Forse. O forse, come Barack Obama e tanti altri progressisti che non hanno bisogno di patenti, Bergoglio ha espresso un’opinione su fenomeni che con le presunte censure della Disney e gli spauracchi sventolati dalla destra non c’entrano nulla, perché il discorso culturale che riguarda l’inclusione e la rappresentazione di centinaia di milioni di persone su piattaforme governate da algoritmi spietati è una cosa un po' più sfumata. Prima ce ne accorgiamo, e prima riusciremo ad avere «il quadro completo della situazione» su cui ci stiamo accapigliando: che è quello che auspichiamo tutti.

I cattivi di Capodanno

(foto Unsplash)

Si comincia a parlare di più di alcuni casi di aggressioni sessuali avvenute in piazza Duomo a Milano e nelle vie limitrofe nella notte tra il 31 dicembre e il 1º gennaio: le vittime sono almeno 9 giovani ragazze, i carnefici – scrive Il Giorno – «italiani di seconda generazione e stranieri, di età fra i 15 e i 21 anni». Nei due provvedimenti di fermo erogati dalle autorità si contestano le accuse di violenza sessuale di gruppo e rapina, e i video delle molestie sarebbero stati pubblicati online.

Accade con frequenza che un episodio di cronaca in cui c’è una componente di multiculturalità a fare da sfondo non diventi subito un talking point di livello nazionale, almeno al di fuori delle immediate lance in resta xenofobe dei sovranisti: era già successo, con modalità accostabili a queste, con la terribile sorte toccata a Saman Abbas, la ragazza di origine pakistana uccisa a maggio a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, per quella che gli investigatori ritengono una pena capitale inflitta dalla famiglia che non accettava il suo essersi opposta a un matrimonio combinato. E alcuni elementi ritornano anche nella vicenda di Ikram Nazih, ventitreenne italiana di origine marocchina finita in carcere nel Paese dei suoi genitori per aver pubblicato per pochi minuti una vignetta ironica sul Corano.

Nel caso milanese, gli inquirenti hanno parlato di «uno sfogo di istinti di prevaricazione e di una subcultura in cui non c’è posto per il rispetto nei confronti del prossimo e men che meno nei confronti delle donne». È presto per analizzare al microscopio la composizione chimica di questa «subcultura», e di certo si sbaglia a identificarla con l’Islam tout court, come fa la sicumera della propaganda di destra: chi ci dice che i presunti stupratori di piazza Duomo siano cresciuti in famiglie profondamente religiose? Non potrebbe essere altro ad aver influito sulla loro formazione e il loro carattere, dal contesto sociale delle periferie in cui abitano a certe italiche compagnie?

A rimanere qual pietra d’inciampo della nostra inadeguatezza, però, è il fatto che qualsiasi discorso su questi temi viene fermato sul nascere da una riconoscibile priorità egoistica: quella di non venire “presi per razzisti”, una preoccupazione che i social network e i timori degli shitstorm decuplicano, fino a paralizzare uno scambio di opinioni e uno sforzo di dialettica e sintesi che, in una società multiculturale in salute, servirebbe come il pane. Tanto si corre con superficialità ad affibbiare etichette all’universo-mondo quanto, se l’etichetta è una di quelle che portano rogne nella propria bolla di riferimento, si tace fino all’autocensura. È un argomento che ha portato anche Giuliana Sgrena sul Manifesto, peraltro, in un connubio di autrice e testata che non dovrebbe lasciare dubbi in buona fede su possibili connivenze con gli ultra-conservatori.

Non è detto che le culture – in senso lato – di provenienza dei presunti molestatori di piazza Duomo abbiano influito in senso decisivo o rilevante sulle loro malefatte. Ma se c’è una possibilità ragionevole che così sia stato, è una domanda sincera da porsi senza timore dello stolto di turno che si concentra sul dito del saggio: lo si deve alle vittime, che sono più importanti di qualsiasi ortodossia di comodo.

Iniziamo a ragionare con questa serenità, e ogni discorso su patriarcato, cultura tossica e divari di genere – che rimangono problemi da affrontare in questa società di cui facciamo parte: si possono avere diverse direttrici di critica e d’azione, checché ne dica Twitter – sarà più partecipato ed efficace, you bet.

Altre news dal fronte

  • Non so se ti intendi di Nft, ma nel caso: sono folli applicazioni della blockchain per creare pezzi unici collezionabili a partire da... beh, quasi tutto (leggi The Verge, che sa spiegarlo meglio di me, se serve). Nella sottocultura Nft, in ogni caso, Bored Apes Yacht Club è un’istituzione: una collezione di 10mila ritratti di scimmie generati da un algoritmo (hai letto bene; ne ha uno anche Adidas), scambiati a prezzi che attualmente partono dai 200mila dollari l’uno. Il direttore creativo Ryder Ripps ci ha però visto intenti razzisti, dato che – ha spiegato – il nome d’arte di uno dei suoi autori, Gordon Goner, sarebbe in realtà un anagramma di «Drongo Negro»;
Il post di Ryder Ripps (grazie ad Alessandro M. per la segnalazione)
  • A ulteriore dimostrazione del fatto che viviamo tempi estremamente complicati, Oltremanica Bbc è contemporaneamente accusata dagli attivisti pro-trans di avere un’agenda «di odio e discriminazione» dai connotati transfobici, e di essere una quinta colonna «woke» per aver rimosso alcuni sketch dell’irriverente show satirico scozzese di fine anni Novanta Chewin' the Fat.
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