E ora che succede in America?


L’ha fatto con un tweet, sulla piattaforma di proprietà di un tizio che spara a zero su lui e i suoi compagni di partito da mesi: Joe Biden ha infine annunciato il ritiro della sua candidatura per la nomination Democratica alla Casa Bianca.

Credo che sia nell’interesse del mio partito e del Paese che io mi faccia da parte e mi concentri esclusivamente sull’adempimento dei miei doveri di presidente per il resto del mio mandato.

Contestualmente, Biden si è prodotto in un immediato endorsement per la sua attuale vicepresidente, Kamala Harris, dicendo di voler «offrire il mio pieno sostegno e il mio appoggio affinché Kamala sia il candidato del nostro partito».

Bene, dirai tu: il Partito democratico ha una nuova candidata (e la prima donna nera della storia statunitense), che magari avrà più possibilità di battere Donald Trump rispetto a Biden – anche se i sondaggi sono, al momento, tiepidi. E invece no, non così in fretta.

Anzitutto perché la nomination Democratica passa da un momento centrale: la convention di Chicago, che si terrà dal 19 al 22 agosto prossimi. In quella sede si riuniranno i delegati statali, quelli che hanno “promesso” il loro voto a Biden con l’esito delle primarie dei mesi scorsi: sono circa quattromila, e a uscire dalla kermesse con la corona di candidato è chi ottiene la maggioranza delle loro preferenze. Biden alle primarie ne ha conquistate 3900, per capirci.

Qui iniziano i problemi: per statuto del partito, i delegati sono tenuti a «riflettere in buona fede il sentire di coloro che li hanno eletti»: in linea non solo teorica, quindi, la loro unica lealtà politica è verso Biden; un nome che tuttavia, ovviamente, non potranno votare. In pratica, dunque, convergeranno tutti – o in maggioranza – per Harris?

È verosimile, ma non è detto. In primis perché l’establishment Democratico non è affatto compatto dietro il nome di Kamala Harris. A spiegarlo non più tardi del 17 luglio è stata Alexandria Ocasio-Cortez, in una diretta Instagram illuminante di cui ho ritagliato e sottotitolato il seguente passaggio:

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Riassumendo: gli stessi che hanno fatto (molta) pressione perché Biden si ritirasse, non erano solamente contrari a una candidatura Biden: erano – e, si presume, sono tuttora – contrari anche a una candidatura Harris. Il che aumenta le possibilità che a Chicago vada in scena un tutti-contro-tutti da cavalleria rusticana, su cui Trump e i suoi lucrerebbero in tempo zero.

E non soltanto: come spiega la stessa Cortez, e come sottolineato da diversi altri analisti politici ed esperti legali, i Democratici con la sostituzione last minute del presidente rischiano almeno su due fronti importantissimi per l’esito elettorale di novembre: in Ohio, dove una legge impone al nome del/la candidato/a la conferma entro il 7 agosto (quindi prima della convention Dem), pena una possibile esclusione dalla scheda; e in Michigan, che richiederà la certificazione del ticket soltanto due giorni dopo il redde rationem di Chicago, quando la questione potrebbe essere tutt’altro che chiusa.

In ogni caso, è fin troppo facile immaginare che la prossima tornata elettorale statunitense, navigando in acque inesplorate sotto diversi punti di vista (il candidato Repubblicano inquisito, quello Democratico sostituito all’ultimo), si risolverà in una sequela infinita di contenziosi legali, che dovranno in ultima analisi essere decisi dalla Corte Suprema a trazione conservatrice.

Aggiungiamo a questo scenario già di per sé bastantemente fosco che tutti i soldi raccolti fin qui dalla campagna di Joe Biden non vengono “automaticamente” trasferiti – per così dire – a quella della sua attuale vicepresidente. E non è poco: significa ritornare a bussare alle stesse porte, con sondaggi a sfavore e a poche settimane da scadenze cruciali per le elezioni di novembre. Reid Hoffman, uno dei nomi più rilevanti della lista, si è già pronunciato con un tweet pro-Harris e non sarà il solo, ma il tempo scorre inesorabile.

Dopodiché, provando a mostrare un po’ di ottimismo, non è detto che non ci sia alcuno spazio per una vittoria di Harris, intendiamoci: d’altronde il suo avversario è un pregiudicato che ha personalmente incitato dei facinorosi ad assaltare il Campidoglio, voglio dire; vedere i Democratici recuperare e rimanere alla Casa Bianca non sarebbe certo il più inverosimile degli scenari.

Bill e Hillary Clinton si sono già prodotti in un endorsement per Kamala Harris, e lo stesso ha fatto la senatrice Elizabeth Warren con alcuni colleghi; Barack Obama, invece, non l’ha fatto.

Trump, maramaldo come sempre, ha già fatto sapere a CNN che battere Harris sarà «più facile» che sconfiggere Biden. «Mancano 107 giorni al giorno delle elezioni. Insieme combatteremo. E insieme vinceremo», ha comunicato invece la stessa Harris, accettando di buon grado l’investitura del suo attuale capo: potrebbe non essere così semplice, come abbiamo visto, ma è obbligatorio provarci.


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