Io il Dottore l’ho un po’ conosciuto – dico «Dottore» perché perlomeno tra la metà degli anni ’80 e l'inizio dei ’90 Silvio Berlusconi nel gruppo Fininvest era chiamato così. Non era ancora «il Presidente», era il Dottore. Ve lo racconto per come l’ho conosciuto io, meno che trentenne.
In quegli anni nel gruppo – con mutevoli fortune – mi sono occupato, nella divisione televisiva, di attività estere, e mi sono guadagnato i galloni con il lancio (allora non si diceva ancora startup) di Telecinco in Spagna. È stato un periodo straordinario e divertentissimo: cultura del fare, anche dell’apparire e soprattutto della zero carta. Ricordo di aver chiesto una riunione per valutare l'investimento di sei miliardi di lire negli Studios Roma, carretera de Irun, Madrid, e il direttore del controllo di gestione disse: «Ma dobbiamo proprio riunirci per sei miliardi di lire?», come fossero caramelle. Per la mia esperienza, se il mito sessantottino della fantasia al potere ha avuto luogo in ambiente corporate, questo è stato tra Milano 2 e Cologno in quegli anni.
Accadde che due persone che non si amavano per nulla – Adriano Galliani, allora a capo della divisione televisiva, e il compianto Valerio Lazarov, a capo di Videotime e futuro direttore generale di Telecinco – parlassero tutt'e due bene di me al Dottore. E quindi arrivò la famosa telefonata. Berlusconi mi convocò ad Arcore. Non mentirò: io anche allora avevo la barba, e sapevo che al Dottore le persone con la barba non piacevano. Mi pare dicesse, con parole più colorite, che se uno ha la barba dev'essere per forza o un grande genio o un immenso deficiente – e che la statistica faceva propendere per la seconda possibilità. Che fare? Tagliarsi la barba prima di andare ad Arcore? Chiesi un rispettoso consiglio a Galliani che mi disse: la scelta è sua, ma se poi vuole tornarci, ad Arcore, è meglio che se la tagli. E io, ventisettenne di belle speranze, me la tagliai.
(Piccola digressione: Silvio Berlusconi dava del tu a tutti noi, ma si faceva dare del tu da pochissime persone. Ricordo che il tu glielo dava Fedele Confalonieri. E anche Boldi: si, perchè dagli artisti, dai presentatori, il tu lo accettava. Ma un alto dirigente, appena assunto e del quale non faccio il nome, cominciò con un pericolosissimo «caro Silvio» senza troppo accorgersi che il «caro Silvio» continuava a dargli del lei. Durò meno di sei mesi).
Quando arrivai ad Arcore, Berlusconi mi illustrò il suo disegno che mi riguardava. Voleva che io portassi ad Arcore, una volta al mese, i direttori dei programmi delle “sue” televisioni europee – La Cinq, Telefunf, e ora la neonata Telecinco – per «fare il palinsesto dell'Europa». Ora, io sapevo benissimo che in Francia, ne La Cinq, noi eravamo in minoranza e comandava Boygues; nella tedesca Telefunf, con la quale tenevo io i rapporti, andava meglio, ma solo perchè, pur possedendo noi solo il 50% delle azioni, pagavamo il 100% delle perdite – ed erano 100 miliardi delle vecchie lire all'anno, non bruscolini. (La cosa, per come me l'hanno raccontata, andò così: un giorno Berlusconi e il proprietario tedesco dell'altro 50% assistettero a un’epica partita del Milan, che stravinse giocando benissimo, e Berlusconi – che in alcuni momenti era davvero generosissimo – disse che le perdite le avrebbe pagate lui per intero).
Al termine di quel colloquio, il Dottore, molto affabile, mi disse: «Conosciamoci meglio. D'ora in poi tutti i venerdì pomeriggio ad Arcore vieni anche tu». Il venerdì pomeriggio ad Arcore lui riuniva, con l'accorta regia di Giovanelli, il Comitato Programmi. Insomma, si faceva la televisione. Avrei voluto essere sincero con lui, fin da quel primo incontro. E dirgli: «Mi scusi, Dottore, ma quelle che lei chiama le nostre televisioni europee non ci amano affatto. In Francia ci hanno estromesso dalla gestione. In Germania comprano programmi in giro senza dirci nulla». Probabilmente ora così direi. E probabilmente avrei fatto bene a dirlo anche allora. Ma ero giovanissimo. Tacqui e annuii.
Feci un giro di telefonate: la Francia si negò e così pure la Germania. Mi rimaneva la Spagna, dove c'era un nostro uomo, Valerio Lazarov, con il quale avevo lavorato bene insieme. Ad ogni telefonata, però, Valerio mi esponeva un motivo per cui ad Arcore non poteva venire: una volta era la gravidanza di sua moglie; un'altra era il nuovo programma di prime time che richiedeva tutta la sua attenzione. Finchè un giorno Valerio – che era rumeno di nascita, poi scappato in Spagna e infine approdato in Italia, per poi tornare in Spagna con Telecinco, mi disse: «Bernardo, a te lo devo dire. Io ho vissuto le tre più feroci dittature del Novecento europeo: quella di Ceausescu, quella di Franco y quella di Silvio Berlusconi. E quindi, ora che ho guadagnato la libertà, non verrò mai ad Arcore a farmi fare il palinsesto da una banda di ragazzi che non sa neanche che in Spagna il prime time inizia alle dieci e mezzo di sera». Fu, per me, l'inizio della fine.
Dai venerdì di Arcore ho imparato moltissimo, e lì ho potuto apprezzare di riflesso quel grandissimo venditore che era Silvio Berlusconi. Ricordo come, in prossimità di un incontro con clienti pubblicitari, soprattutto imprenditori della ricca provincia italiana, si facesse raccontare particolari degni di nota – ad esempio che il figlio dell'imprenditore X si era diplomato con 60/60. Studiava e si ricordava tutto. E poi, incontrando l'imprenditore X, diceva: «Mi congratulo, ho saputo del sessanta di suo figlio, complimenti», conquistando il cuore di quelle persone. Interi budget pubblicitari strappati alla Rai. Però, come tutti i grandissimi venditori ed affabulatori, si autoconvinceva di tutto ciò che diceva, fino a crederci. Ha strappato alla Rai fior di artisti, ma se la Rai provava a strapparne uno diceva: «Vedete come sono scorretti?». E nel dirlo era davvero sincero.
Visto che nei venerdì di Arcore ero – o almeno mi sentivo – un pesce fuor d'acqua, per diminuire il mio disagio avevo scelto una posizione strategica, a due sedie da lui, con – tra lui e me – il suo assistente. In tal modo i nostri sguardi non si incrociavano praticamente mai. Finchè...
I cinema Odeon, allora del gruppo, avevano iniziato a programmare il primo giovedì del mese delle serate di anteprima, a inviti, per giornalisti e altre persone di riguardo. I dirigenti del gruppo, tra cui io, erano invitati. Un fatale giovedì venne programmato Un tè nel deserto, di Bertolucci. Doveva introdurre proprio lui, il regista, che però perse il volo dagli Stati Uniti. Così decise di parlare, in sua vece, Berlusconi. Non era un periodo facile: dopo la sua crescita impetuosa il gruppo aveva problemi economico-finanziari; non passava settimana che qualche forza politica presentasse proposte che significavano centinaia di miliardi di lire di tagli ai ricavi Fininvest. E quella sera il Dottore non era in forma. Infilò una papera dopo l'altra. Ricordo che disse: «A me è piaciuto molto anche il film del mese scorso» attribuendo il ruolo di protagonista non a Schwarzenegger ma a Shevarnadze (allora ministro degli esteri dell’Urss). Proseguì consigliando a tutti non solo i film di Bertolucci, ma anche le sue famose poesie (scritte invece dal padre). Insomma, quando si spensero le luci, dall'oscurità protettrice partì una poderosa raffica di fischi.
Il giorno dopo era venerdì. Arcore. La riunione iniziò senza di lui. Il Dottore arrivò dopo mezz'ora, in tuta, come talvolta accadeva. Sembrava rilassato. Dopo un po' chiese: «C'era qualcuno all'Odeon ieri?». Secondo me c'erano quasi tutti, ma calò il silenzio e calò anche, di dieci gradi, la temperatura nella stanza. Io mi voltai dall’altra parte, protetto dalla mia posizione strategica. Mi sentivo al sicuro. E qualcuno, dal fondo della sala, disse: «C’era Notarangelo». Mi voltai giusto in tempo per vedere Berlusconi che spostava quasi di peso il suo assistente, unica persona tra lui e me. Guardandomi negli occhi mi chiese: «Come sono andato?». Io vedevo le persone in fondo, dietro Berlusconi, (e in particolare ricordo Brugola, che ora non c'è più) che si sbracciavano facendomi gesti per farmi dire: Benissimo, Dottore, alla grande, come sempre. Ora, non ero un eroe ma nemmeno so mentire. Scelsi la soluzione peggiore: il compromesso. E dissi: «Dottore, così così». E, avvedendomi del gelo assoluto nella sala, aggiunsi: «Però nel finale è migliorato». Berlusconi, col volto scuro, sbottò: «Ma non capisci! Ho dovuto improvvisare!».
E in quel mentre... Cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. E nella sala si palesò il genio, nella persona di Paolo Vasile, allora direttore dello stabilimento di produzione di Roma e poi, fino a pochi mesi fa, gran capo di Telecinco. Vasile disse: «Dottore, ma non ha notato come sibilava il microfono?». «Paolo, in che senso?», chiese Berlusconi. «Lei ha iniziato a parlare e subito il microfono ha fatto le bizze. E per questo lei si è deconcentrato!». «Paolo, hai ragione!». «Devo anzi dirle che non è ammissibile che qualcuno la faccia parlare così senza prima provare il microfono! Io prenderei provvedimenti».(Insegnamento d'oro: spostare la responsabilità su oggetti e persone non presenti. Spero solo che il tecnico audio dell'Odeon non sia stato licenziato).
Ho mai votato Berlusconi? No, proprio perché sono liberale, anche se l'indomani della sua vittoria nel 1994 ho sperato che davvero potesse fare il bene dell'Italia – e così, a mio avviso, non è stato. Ho visto con sgomento mia madre, che ventenne teneva comizi per la Repubblica nel referendum del ’46 e colpì Togliatti con il suo entusiasmo, diventare fervente berlusconiana e tale rimanere, fino, in alcune circostanze, a negare l'evidenza – esattamente come lui, il Dottore, si autoconvinceva di ciò che diceva.
Dopo la prima guerra del Golfo arrivò alla riunione del venerdì sconsolato (cosa che non era da lui) e si lasciò andare ad un lamento. «Ragazzi, ora tutti parlano di Ted Turner e della Cnn. Io forse entrerò nei libri di storia solo in una nota a pie’ di pagina. Certo, lui ha avuto i suoi vantaggi: è nato nel Paese che ha vinto la Seconda guerra mondiale, e io nel Paese che l'ha persa. Ma credetemi, siamo vicini di villa ai Caraibi e io sono molto, molto, molto più intelligente di lui».
Ricordo un pomeriggio di bel tempo, nel bellissimo parco di Arcore. Qualcuno gli chiese: «Dottore, cosa vuole fare ora?». «Entrare nella storia», fu la sua risposta. Ecco, non l'ho votato mai perchè uno che vuole far tenere la prolusione della sua università del pensiero liberale a Putin, liberale non è – anche se, per i motivi che ho esposto, si autoconvince di esserlo. Io diffido di coloro che vogliono entrare nella storia. Spesso ci entrano nel modo sbagliato. E lui, il Dottore, è riuscito a entrarci.
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