È successo che Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, nota al grande pubblico come Bebe Vio, la settimana scorsa ha partecipato a un evento di celebrazione dei 75 anni della Costituzione italiana, in presenza del presidente Mattarella e altri ospiti d’onore.
Invitata alla Camera dei deputati, la 26enne schermitrice paralimpica ha tenuto un discorso appassionato sui giovani, le loro aspirazioni e il loro tempo, dicendo tra le altre cose due parole su quelle che ha definito le «scuse» che cerchiamo per giustificarci con noi stessi:
Adesso mi sono finalmente laureata. È stata un’impresa, però ce l’ho fatta. La cosa che tutti mi hanno sempre chiesto è: “Ma come fai a trovare il tempo? Come fai a studiare e allenarti tante ore al giorno? Come fai a fare tutto quanto insieme?”. In realtà secondo me siamo bravissimi a inventarci scuse, tantissime scuse per trovare un motivo per non riuscire a farlo. Tantissime scuse per dire “no, vabbè, ma adesso non posso”, “no, adesso non ce la faccio”. In realtà il tempo non significa avere tempo ma riuscire a trovarlo. La mia fortuna è essere un atleta: tra le gare e in viaggio ho la possibilità di studiare.
Sei d’accordo? A me, ascoltandola, è parsa la riproposizione del rodato pensiero motivazionale a cui un personaggio come Bebe Vio, dato il suo vissuto straordinario, ci ha abituato negli anni. Il suo ruolo è sempre stato questo: e stupirebbe il contrario, visto che l‘atleta ha perso braccia e gambe per una meningite quando aveva 11 anni, è tornata a scuola, si è laureata e ha vinto una dozzina di medaglie d’oro alle Olimpiadi e ai Mondiali del suo sport.
Insomma, non vedo casus belli. E invece, incredibilmente, su Twitter (pardon, “X”) e su Instagram queste poche parole sono diventate oggetto di pensosi sermoni miranti ad additare il «privilegio» di Bebe Vio.
Sì, sì, hai letto bene: il «privilegio». Prendi ciò che ha postato Alessandro Sahebi, giornalista con un buon seguito (e che personalmente di solito apprezzo). Riprendo alcune storie della lunga serie che ha dedicato alla vicenda:
Sahebi non è stato l’unico a promuovere questa lettura, peraltro: prendi il successo che commenti del genere hanno avuto anche su altre piattaforme, ad esempio q̶u̶e̶l̶l̶a̶ ̶c̶l̶o̶a̶c̶a̶ ̶d̶i̶ X:
Ora, mi è difficile anche solo iniziare a commentare, perché credimi, questa cosa mi rattrista nel profondo. Ma proviamoci, premettendo che sulle disuguaglianze economiche mi è da poco cresciuto il barbone canuto di Carlo Marx.
In generale non so cosa sia andato così storto, nel mondo in cui viviamo, per sentirsi in dovere di sostenere pubblicamente – pensando persino di essere fini critici, e non cerberi schiavi del proprio pubblico e incapaci di empatia – che una venticinquenne che ha vissuto più di metà della sua vita senza arti sia «una privilegiata», ma in qualche modo è successo.
Il termine-mondo del privilegio è oggetto di un uso così leggero e scriteriato online, nelle nicchie del sedicente attivismo easy-peasy, da risultare svuotato di ogni senso: è il fucile giocattolo che spara il tappino; quando spara il bimbo è contento, si sente importante e può passare rapidamente agli altri giocattoli.
Perché guarda, mi è perfettamente chiaro che la situazione economica della sua famiglia abbia a tutti gli effetti aiutato Bebe Vio (le scuole, i trattamenti, le protesi costose): ma lei rimane anzitutto la vittima di un male terribile e di una disabilità gravissima che l’hanno resa un paria de facto nella società, prima che riuscisse a sfidare la sua condizione e a farne un simbolo.
Come disse una volta il ciclista Franco Chioccioli a un reporter che gli chiedeva conto di possibili intercessioni dall’alto per spiegare un suo gran risultato al Giro d’Italia del 1991: «Sì, Dio mi avrà aiutato di sicuro. Però a sudare su quella bicicletta c'ero io». Ecco, a sudare sulla metaforica bicicletta di Bebe Vio non c’eri tu, non c’ero io: c’era lei.
Le difese della lettura di Sahebi e i suoi emuli recitano più o meno così: il senso è chiaro, non è una privilegiata in senso assoluto ma in senso relativo, perché (citando il tweet di cui sopra) «la maggior parte delle persone con la sua stessa disabilità» non dispone delle stesse opportunità.
E questo è un dato di fatto, persino scontato. Ma non si può fingere che il sommarsi di questi discorsi declamati sul nostro pulpito algoritmico di moralizzatori ex cathedra non finisca precisamente per additare colpevoli predeterminati e assoluti che noi, proprio noi, indissolubilmente noi siamo lì per smascherare una volta per tutte.
Come ho scritto nel mio libro La correzione del mondo, teorizzando il suo concetto di intersezionalità – cioè, detta breve, la necessità di considerare più caratteristiche identitarie nella definizione dell’oppressione patita da un individuo – la giurista Kimberlé Crenshaw «aveva postulato la simultaneità delle oppressioni, un netto rifiuto all’ipotesi di creare una gerarchia fra di esse, e la necessità di considerare il contesto in cui si muove il soggetto».
Dov’è finito il contesto in cui si muove Bebe Vio, cioè un’esistenza di cui si è ri-appropriata contro tutto e tutti, rendendola un simbolo che non ha precedenti in Italia? E perché lo riduciamo a un’occasione per postare Instagram Story che ammiccano con l’occhiolino ai follower (hey, ha frequentato «prestigiose università private»! Sì, Sahebi, ma io e te abbiamo le gambe e le braccia e non abbiamo passato l’intera giovinezza a dover subire gli sguardi degli estranei: lei sì).
In quest’epoca illuminata di minoranze che finalmente parlano per loro stesse, stranamente a fare da rappresentanti e portavoce della «maggior parte delle persone con la stessa disabilità» di Bebe Vio siamo ancora noi, che alle medie ci siamo andati sulle nostre gambe. Curioso, eh?
Peccato, perché sarebbe davvero interessante – nonché a questo punto urgente – chiedere a queste persone di esprimersi direttamente su Bebe Vio: quando la sentono parlare alla Camera di fronte a Mattarella pensano che è «un discorso che non ci meritavamo da ascoltare»? O piuttosto una schermitrice disabile medaglia d’oro invitata a Montecitorio le fa sentire rappresentate, viste, inorgoglite?
Io la risposta non ce l’ho, perché grazie al cielo non sono un influencer e non ho verità precostituite a cui sacrificare tutto il resto: ma se ti ho portato a rifletterci è già qualcosa.
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