La nostra American Fiction


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C’è un film di cui questa newsletter non poteva non parlare: si intitola American Fiction, l’ha girato il regista Cord Jefferson ed è valso al suo protagonista, Jeffrey Wright, una candidatura come Miglior attore protagonista agli ultimi Oscar (oltre che una alla Migliore sceneggiatura non originale per lo stesso Jefferson, di cui poi è risultato il vincitore).

E la sua trama è, in effetti, il non plus ultra di una critica culturale che negli ultimi anni era largamente mancata a Hollywood. Thelonious ‘Monk’ Ellison è un autore afroamericano di mezza età che scrive romanzi “alti” ispirati alle tragedie greche e vende poco, anzi pochissimo.

Per campare Monk insegna anche letteratura in università, ma un confronto con una studentessa bianca – lei si era inviperita per una parola offensiva scritta sulla lavagna, ovvero il titolo di The Artificial Nigger, un celebre racconto di Flannery O'Connor, lui le aveva risposto «se riesco a passarci sopra io, direi che puoi farlo anche tu» – lo fa allontanare per decreto dall’ateneo (aveva, d’altronde, «messo a disagio alcuni studenti», secondo gli amministratori scolastici).

Mentre le sue finanze, la sua vita accademica e la sua carriera da scrittore vanno a rotoli, il protagonista continua a imbattersi nel successo mainstream di Sintara Golden, un’autrice rivale che ha appena pubblicato il suo ultimo successo, We’s Lives in da Ghetto. Com’è facile comprendere anche a chi non ha visto il film, Golden è una parodia pungente dell’autore nero specializzato in una Blackness in teoria liberatoria, ma in pratica un attimo stereotipata: vernacolo afroamericano onnipresente, storie uniformate di gang e vita criminale in periferia, ragazze madri, rapper che spacciano, eccetera eccetera.

Quando la vedrai (se non l’hai già vista) ti piacerà l’estenuazione fatta di silenzioso ma visibilissimo disprezzo che accompagna Monk quando assiste a un’intervista commossa in prime time a Sintara Golden, che poi procede a leggere un passo del suo libro inconsistente come se fosse un classico memorabile, o la sera, quando accende la tv e ci trova storie di spacciatori afroamericani in fuga dal ghetto.

Ma nel film c’è molto altro, a cominciare dal cambio di passo che segna il dipanarsi della trama: sfinito dalla morte improvvisa della sorella, dalla madre ammalatasi, dalla sua famiglia in frantumi, dai problemi economici e soprattutto da un mondo che non accetta la sua erudizione, Monk scrive per scherzo My Pafology, la finta autobiografia di un ricercato nero in fuga, il fittizio Stagg R. Leigh; per scherzo la propone al suo agente letterario; per scherzo, ovviamente, trova un editore disposto a renderlo milionario (la scena del primo colloquio fra «Leigh» e la publisher bianca è forse la più riuscita del film: ricorrono gli aggettivi «crudo» e «vero» già usati per il libro di Golden, Monk è costretto a parlare come un rapper e il tutto raggiunge un livello di grottesco celestiale).

«I bianchi pensano di volere la verità, ma non la vogliono: vogliono sentirsi assolti» dice l’agente di Thelonious Ellison al suo assistito, ed è una delle direttrici del film: tante pose nominalmente votate all’allyship e all’inclusione in realtà sono poco più che mostrine da appuntarsi sul petto per dirsi bravi e dalla parte giusta, anche se nei fatti remano spesso in direzione contraria alla «diversità» di cui si dicono portavoce. Fin dai tempi della blaxploitation commerciale del cinema degli anni Settanta, la comunità afroamericana dibatte sulla rappresentazione dei neri su pellicola. Ma di questi tempi, il mainstream parla di altri termini onnipresenti.

American Fiction è un film contro la «cultura woke», come si è letto? In parte satireggia una sua incarnazione precisa (le università pavide e prone, l’editoria moralisteggiante priva di spessore, l’inclusività di facciata), è vero, ma non è soltanto questo. Anzi, nel fatale confronto tra Monk e Sintara Golden, che a un certo punto si trovano nella stessa giuria di un premio letterario, emerge una tensione che sembra andare nel verso opposto: Monk la accusa di rendere i neri umanità bidimensionale; Golden spiega che i suoi libri sono il risultato di ricerca dettagliata, poi chiede al suo accusatore per quale motivo agli afroamericani dovrebbe essere precluso il successo commerciale solo perché scrivono cose che piacciono ai bianchi. E il protagonista fa scena muta.

E poi c’è il finale (che qui non spoilereremo, dai). In generale, si può dire che American Fiction è un film che di risposte certe non ne ha: al posto del suo sceneggiatore e regista Cord Jefferson, avrei forse calcato di più la mano sul versante della satira tagliente del finto progressismo controproducente. Ma lui ha fatto una cosa diversa, lasciando molte domande aperte e girando il volante dello script verso i saliscendi della vita privata del protagonista. Jefferson stesso ha detto che il suo «sogno» è che la pellicola stimoli un nuovo dibattito, non che venga usata per inchiodare colpevoli ben definiti alle loro responsabilità.

Che sia un lungometraggio in controtendenza – e che questa controtendenza vada esaminata, letta e compresa – è senza dubbio (e sbaglia, non a caso, anche chi combattendo le guerre culturali da sinistra è corso ad arruolare American Fiction fra le truppe di un integralismo opposto, vedendoci o volendoci vedere una complessa critica della white supremacy di Hollywood: non è nemmeno questo). Ma quella del film «anti-woke» è una semplificazione fuorviante, che fa torto all’intento cauto e meditabondo della sceneggiatura.

Come si dice in questi casi, era meglio il libro: in questo caso Erasure, il romanzo di Percival Everett uscito nel 2001, una parodia molto più definita, sistematica e decisa di un genere letterario visto come il fumo negli occhi da Everett. Ma American Fiction rimane, per quel che mi riguarda, un film riuscito e da vedere. Foss’anche soltanto per una battuta perfetta rivolta da Thelonious ‘Monk’ Ellison al suo agente che gli stava spiegando i motivi di mercato per cui non vendeva abbastanza: gli editori volevano «black books», non le sue alzate d’ingegno.

My book is a black book because I’m black and I wrote it.

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  • Che gli Stati Uniti lo bannino davvero (difficile) o meno, TikTok va comunque regolato, per il bene di tutti.

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