Ho spesso pensato, per snobismo intellettuale, che ciò che affliggeva molti dei miei parenti americani riguardo alla questione della razza fosse una forma di menefreghismo, una supponente ignoranza, una bieca apatia. Solo le donne della famiglia ritrovavano forza e spalle dritte parlando del loro essere donne nere, e i loro insegnamenti restano bene impressi nella mia testa.
Le mie convinzioni non erano infondate, ma il motivo di tanta distanza da questioni che ritenevo dovessero infiammare la vita quotidiana di una famiglia del South Side di Chicago era che per loro erano una cosa vecchia, trita e ritrita, sperimentata con conseguenze diverse, ma un’unica convinzione di fondo: non c’è legge o norma negli Stati Uniti che sia stata fatta davvero per ripagare i neri.
Erano gli anni Novanta, e da allora sono cambiate molte cose, eppure non così tante per buona parte delle minoranze d’America, a partire da quella afroamericana.
La scuola è un punto cruciale: l’accesso ai college è una questione obbligata e molto complessa, oltre che determinante nella vita di un adolescente americano. Il diritto all'educazione, il diritto di accesso alle università ha cambiato faccia nei decenni, e il ruolo decisivo lo ha giocato l’affirmative action, quell’insieme di politiche volte a garantire pari opportunità nell’impiego e nell’istruzione, con l’obiettivo dichiarato di contrastare la discriminazione basata su un’ampia gamma di questioni identitarie, tra cui razza, sesso, genere, religione, origine nazionale e disabilità.
Originariamente introdotte su larga scala negli anni Sessanta per affrontare la discriminazione razziale, le politiche di “azione positiva” hanno una storia lunga. Il primo presidente a usarle fu John F. Kennedy, che col Comitato per le pari opportunità di lavoro incaricò gli appaltatori federali di garantire che i candidati fossero trattati allo stesso modo indipendentemente da razza, colore, religione, sesso od origine nazionale.
L’affirmative action però col tempo è diventata anche altro: è stata utilizzata per ottenere benefici, voti ai partiti (specie, va da sé, provenienti dagli afroamericani), e spesso anche dalle istituzioni per salvarsi la faccia e lavarsi le mani. Beh, oggi ci si trova invece con una patata bollente in mano. Con la sentenza del 29 giugno, votata a larga maggioranza dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, si è stabilito che le politiche di ammissione dell'Harvard College e dell'Università della Carolina del Nord – basate anche sull’appartenenza etnica – violano la Costituzione: inizia la fine dell’affirmative action nell’istruzione superiore statunitense.
Già col passare dei decenni aveva cominciato a insinuarsi il dubbio – sostenuto anche da molti ex studenti, intellettuali e studiosi della società americana – che l’affirmative action potesse trasformarsi in una discriminazione “al contrario”, che non rendesse i candidati studenti appartenenti a minoranze uguali agli altri, ma li avvantaggiasse a discapito di altri studenti. Oltre alla media, agli interessi, alle inclinazioni e alle abilità sportive, sul curriculum secondo alcuni appariva la razza, come plus o minus. Gli stessi studenti neri – alcuni di loro ora in posizioni importanti della politica e della legislazione americana, come nel caso limite del giudice conservatore Clarence Thomas – ricordano come imbarazzante e frustrante l’essersi trovati per anni in classe con gli occhi degli studenti bianchi addosso, e sguardi che dicevano “tu sei qui grazie al colore della tua pelle”.
Mentre gli anni Ottanta e Novanta hanno visto un aumento nell’accesso di studenti neri e di altre minoranze nelle università più prestigiose, la polemica sulle implicazioni – non chiare o addirittura negative – dell’affirmative action nel processo di selezione per i college ha portato molte associazioni, rappresentanti della destra conservatrice e persino giudici della Corte Suprema a denunciare l'illiceità dei suoi principi. La stessa complicata applicazione di queste policy le ha rese attaccabili, spesso deboli, e oggetto di infiniti confronti pubblici: la discussione sul mantenerle nella loro forma attuale, d’altronde, era aperta da tempo negli Stati Uniti.
Ma la sentenza cambia tutto. La questione sulla legittimità dell’utilizzo di metodi “costruttivamente discriminatori” in base alla razza nei due atenei coinvolti è stata posta da un’organizzazione no profit, la Students for Fair Admissions (SFFA), che si prefigge di difendere i diritti umani e civili assicurati dalla legge, incluso quello degli individui ad avere uguale protezione legislativa. L‘organizzazione ha fatto separatamente causa sia ad Harvard che all’NCU. La decisione della corte a favore dell’organizzazione e contro l’affirmative action ha una portata nazionale, ma soprattutto extra-scolastica.
Ci risiamo, Anzi, siamo sempre lì.
Chi come me è cresciuto in Europa a metà tra due culture (italiana e afroamericana) ha la sensazione che parlare di razza sia intellettualmente superato, involuto. Non dispiace che una discussione tanto profonda nella sua seconda madrepatria rimanga aperta, perché la vera domanda alla base della questione dell’affirmative action è: fare differenze aumenta o diminuisce le differenze? Non una domanda banale, ma che forse non ha risposta.
Potrebbe però averne una per la questione afroamericana negli Stati Uniti, il paese protagonista dell’affermazione della versione più letale della questione della razza, il razzismo, in cui con praticità e brillante ipocrisia una parte politica, anche con questa sentenza, continua a giocare la partita a scacchi delle elezioni e del potere sulle spalle delle minoranze.
Ancora oggi oltreoceano persistono profonde divisioni su come fare i conti con l’eredità di discriminazione razziale, e quali tipi di misure migliorative la legge dovrebbe consentire. Sarà interessante vedere come cambieranno le percentuali di minoranze negli iscritti alle università come Harvard (che oggi ha un 15,2% di afroamericani, 27,9% di asiatici, 12,6% di latinoamericani) e NCU (asiatici 10,9%, latinoamericani 8,52%, afroamericani 8,23%) e quanti ricorsi, quante manifestazioni e quanti tentativi di abrogazione serviranno per pacificare gli animi di un paese tanto frammentato.
Di certo, la Corte Suprema ha cambiato rotta. Il presidente dell’organo, il giudice John Roberts, che ha firmato la sentenza del 29 luglio, scriveva già nel 2007 nella sentenza Parents Involved in Community Schools v. Seattle, che «il modo per fermare la discriminazione razziale è smettere di discriminare sulla base della razza». Sedici anni dopo ha offerto una linea ancora più netta: «Eliminare la discriminazione razziale significa eliminarla tutta, e l’Equal Protection Clause si applica senza riguardo ad alcuna differenza di razza, colore o nazionalità, è universale nella [sua] applicazione».
Una frase sensata, se non si considerasse il momento storico in cui molte di queste leggi sono state promulgate; un momento in cui lo status di cittadino con tutti i diritti per un nero negli Stati Uniti era (ed è) ancora molto lontano dall’essere una realtà; se non si calcolasse il secolo di lotte e battaglie, il valore delle riparazioni morali legate all’enormità dell’ingiustizia, l’infinito gap culturale, educativo, sociale ed economico non di una, ma di generazioni di esseri umani della comunità nera, lo sfruttamento e l’uccisione di corpi neri su cui si è costruito un paese, la violenza psicologica di umiliazione e sottomissione che ancora ora, in un angolo nemmeno troppo nascosto, punge il cuore e il cervello di ogni afroamericano.
Allora forse si potrebbe non avere riguardo. E far finta di nulla, come ci viene detto spesso per non rispondere alle becere offese più o meno velate e violente della popolazione bianca, anche qui in Italia: Fai finta di nulla.
Non c’è dubbio che organizzazioni, associazioni, attivisti non faranno finta di nulla, perché è chiaro – come ha dichiarato la giudice “dissidente” Sonia Sotomayor – che «la decisione della Corte Suprema avrà un impatto devastante in una società endemicamente divisa, dove la razza ancora conta e continuerà a contare». Forse la decisione della corte che si rifiuta ipocritamente di vedere il colore della pelle e le sue implicazioni si rifiuta anche di guardare il famoso elefante nella stanza: e di che colore è, a voi immaginarlo.
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