Propaganda cromosomica


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Le rinunce della nostra atleta Angela Carini al match di pugilato contro l’algerina Imane Khelif il primo agosto, e poi allo sport della sua vita, la boxe, il giorno seguente, devono essere viste come un’enorme sconfitta per la categoria femminile, ma non per le ragioni addotte dalla politica.

Una enorme sconfitta, perché è evidente ancora una volta come la retorica predominante del “proteggere la categoria femminile”, velata sotto il manto della ricerca dell’equità nello sport, del “level playing field”, ha fatto colpo ancora una volta. Anzi, doppio colpo. Le vittime sono state infatti almeno due, in questo caso: la nostra atleta, che sottoposta a un’immensa pressione mediatica, ha ceduto e rinunciato all’opportunità della vita: quella di competere alle Olimpiadi contro un’avversaria che poteva battere. La seconda (ma questa al pubblico italiano interessa meno), quella dell’atleta algerina, per cui tutte le vittorie da qui in avanti saranno necessariamente macchiate dall’ombra di una vittoria iniqua, ingiusta, sulla base di un presunto vantaggio maschile.

Altrove ho già commentato ampiamente le disparità genetiche e biologiche che conferiscono un evidente vantaggio di performance, ma non per questo vengono considerate inique: per fare un esempio recentissimo, la differenza di altezza di quasi 60 centimetri tra giocatori giapponesi e francesi nel basket olimpico; eppure una differenza simile, se riportata all’interno dello stesso sesso, continua a venir considerata equa, giusta. Appena sorge il sospetto che uno dei due avversari abbia caratteristiche biologiche che sono considerate prerogative della categoria maschile, si accende la polemica e il dibattito si abbassa di toni e argomenti: oggi la mia omonima Silvia Camporesi, artista e fotografa, nonché mia concittadina (ebbene sì), ha ricevuto per la prima volta una mail di insulti dove è stata definita «criminale», per colpa di un pezzo che avevo scritto io.

Premessa: seguo la questione dell’idoneità a partecipare nella categoria femminile dal 2009, da quando scoppiò il caso di Caster Semenya ai campionati del mondo di atletica di Berlino. La questione chiave nel dibattito è quella dell’unfair advantage: sulla base di quali criteri un certo vantaggio naturale, endogeno, può essere considerato iniquo o ingiusto in una competizione? 

Per affermare che lo sia, stabilisce il documento normativo del CIO – il Comitato olimpico internazionale – del novembre 2021, bisogna avere evidenze scientifiche solide e robuste, pubblicate in riviste con revisione dei pari, che dimostrano che livelli elevati di testosterone endogeno forniscono un vantaggio tale per cui atlete con variazioni di sviluppo del sesso (come Khelif, o Semenya) riescono a ottenere risultati o performance non ottenibili da altre atlete che non hanno gli stessi elevati livelli di testosterone. Queste evidenze scientifiche devono essere sport-specifiche. In mancanza di esse, il CIO è molto chiaro: bisogna includere atlete con variazioni dello sviluppo del sesso nella categoria femminile. Ed è stato così per Khelif, che è stata battuta da varie atlete che non hanno lo stesso vantaggio (ma che è presumibile ne abbiano altri).

Se mi fosse stato chiesto qualche anno fa, non avrei immaginato che a distanza di anni avremmo ancora parlato di casi del genere. Dopo la vittoria della velocista indiana Dutee Chand nella sentenza del 2015 al TAS contro la IAAF, la Federazione internazionale dell’atletica, che aveva portato alla sospensione delle regole sull’iperandrogenismo per mancanza di sufficiente evidenza, in molti – me compresa, e compreso lo stesso avvocato di Semenya (intervistato dal bellissimo podcast Tested di Rose Eveleth, che consiglio vivamente per farsi un’idea ben informata sulla questione) – pensavamo che la IAAF avrebbe lasciato perdere, e che saremmo tornati allo status quo in vigore dal 1999 in avanti, quello in cui alle atlete donne non era più richiesto di ottenere certificati di femminilità per competere nella categoria femminile.

Eppure questo non è successo, e a distanza di anni la questione ha solo assunto toni più accesi, più politici. Oggi, dobbiamo constatare come una questione sportiva diventi immediatamente una questione di politica internazionale e di scontri simbolici da cui trarre dividendi di consenso, come testimoniato dal recente incontro tra Giorgia Meloni e il capo del CIO Thomas Bach.

La IAAF, dicevamo, non ha lasciato perdere la questione dei corpi iperandrogeni. Tutt’altro: nell’aprile del 2018 ha reintrodotto nuovi criteri di idoneità per competere nella categoria femminile, con un livello di testosterone ridotto della metà (da 10 a 5 nmol/l) solo per un sottoinsieme di eventi, e nel marzo del 2023 ha operato un’altra riduzione della metà (si tratta delle regole attualmente in vigore), senza apporre alcuna base scientifica alla riduzione, in aperta tensione con il quadro normativo del CIO.

Il professor Eric Vilain, endocrinologo della George Washington University e specialista delle differenze di sviluppo del sesso, membro del team della IAAF che aveva lavorato nel 2011 alla prima versione delle regole sull’iperandrogenismo nell’atletica leggera, ha recentemente affermato che sebbene non sia contrario in linea generale a restrizioni nella categoria femminile, è contrario alle ultime due versioni delle stesse: regole che vanno a regolamentare corpi a livello di competizioni internazionali devono necessariamente essere basate sulla scienza, sostiene Vilain.

A giustificarle, dando ragione alla World Athletics, è stato invece l’avvocato della IAAF Jonathan Taylor in un’intervista al Times del 2019: «Se il TAS non implementasse le nuove regole [quelle del 2018], allora DSD – persone affette da Disturbi della Differenziazione Sessuale, ndr – e atleti transgender dominerebbero il podio e le medaglie nello sport, e le donne con livelli di testosterone normali non avrebbero nessuna chance di vittoria».

Questo tipo di strategia, come ha messo bene in luce la storica dello sport britannica Vanessa Heggie, è incredibilmente simile alla scare tactic (strategia della paura) che negli anni Settanta era usata per giustificare la necessità dei test visivi dei genitali per le atlete donne, per assicurarsi che non ci fossero uomini «masquerading as women» in cerca di competere nella categoria femminile.

Alla luce di tutto questo, le fake news che abbiamo visto circolare sull’atleta algerina, definita «trans» o «transgender» da una varietà di media, non devono essere prese necessariamente come errori. Possono in alcuni casi essere strategie narrative intenzionali, volte a voler combinare la questione dei corpi femminili con DSD con la questione dei corpi trans. Questo tipo di strategia rievoca direttamente quella usata dagli avvocati che hanno lavorato con IAAF alle udienze che si sono tenute al Tribunale d’arbitraggio sportivo di Losanna del febbraio 2019. 

Vorrei quindi ora allontanarmi dalla questione politica e assumere una prospettiva più ampia, per analizzare un’idea alternativa che è stata portata avanti negli ultimi anni: quella dell’istituzione di una terza categoria nell’atletica leggera. L’idea è stata ventilata ripetutamente nell’atletica leggera: per esempio dai filosofi oxfordiani Bennett Foddy e Julian Savulescu già in tempi non sospetti, quando scrivevano come nelle categorie del pugilato potrebbe avere senso suddividere i partecipanti sulla base di caratteristiche biologiche e genetiche.

Più recentemente, le bioeticiste neozelandesi Taryn Knox e Lynley Anderson hanno portato avanti tesi simili. Propongono un sistema categorico, in cui all'interno di ogni categoria è mantenuta la parità di opportunità. Questa idea non è affatto un’idea campata in aria, o per soli filosofi, tanto che anche Stephane Bermon, il contestato direttore medico e scientifico della IAAF, ha affermato in un’intervista al Guardian nel 2018 che potrebbe essere un’idea implementabile nel giro di 5-10 anni (e quindi vi saremmo ormai vicini, secondo le sue previsioni).

Questa soluzione sembrerebbe accontentare entrambe le parti: coloro che ripudiano l’idea di un trattamento farmacologico per modificare variazioni naturalmente genetiche di un corpo femminile come unica condizione per tornare a competere (e non si tratta di sociologi o eticisti: si tratta dell’autorevole voce della World Medical Association, l’associazione che a livello mondiale promulga linee guida per la condotta dei medici e che si è pronunciata pubblicamente); e coloro che affermano che lasciare continuare a competere nella categoria femminile corpi iperandrogini va a intaccare il level playing field (la parità di condizioni).

In un articolo appena pubblicato sulla maggiore rivista americana con revisione dei pari di bioetica, l’American Journal of Bioethics, le autrici Katherina Jennings dell’Università di Oxford nel Regno Unito e Esther Braun dell’Università di Bochum in Germania propongono un sistema in cui, invece di dividere atleti nella categoria maschile e femminile, gli atleti sarebbero suddivisi in categorie a seconda dei livelli di alcune proprietà biologiche e genetiche connesse a vantaggi di performance nello sport.

Nel loro articolo scrivono: «La World Athletics potrebbe adottare un tale sistema categorico», che, proseguono, «è molto più adatto a soddisfare la definizione di equità di WA rispetto all'attuale sistema binario basato sul genere che richiede la soppressione dei livelli di testosterone». Questo sistema, aggiungono, potrebbe essere creato sul modello delle classificazioni paralimpiche, dove l’influenza di proprietà rilevanti sulla performance di alcuni task specifici viene misurata nei test di valutazione della capacità minime residue che assegnano atleti a categorie specifiche.

Questa soluzione, affermano le autrici, avrebbe il dono di essere soddisfacente per la WA e di non richiedere la modificazione farmacologica delle atlete con elevati livelli endogeni di testosterone. Tuttavia, dopo aver lavorato e seguito da vicino il dibattito sull'ammissibilità nella categoria femminile per 15 anni, sono giunta una conclusione piuttosto cinica: la WA si preoccupa solo dei livelli di testosterone e non di altri vantaggi naturali; qualsiasi tentativo di cercare di spiegare il concetto di equità di WA, e di metterlo in pratica – incluso quello più recente di Jennings e Braun – è destinato a fallire.

Questo perché la WA è – nonostante le affermazioni di facciata del suo presidente Seb Coe – esplicitamente disinteressata alle evidenze scientifiche circa il reale vantaggio di prestazione fornito dai livelli di testosterone, rispetto ad altri vantaggi naturali. Alle pagine 76-77 della sentenza del TAS che il 1° maggio del 2019 ha respinto (con due giudici su tre) il doppio ricorso di Caster Semenya e Athletics South Africa contro la IAAF, leggiamo che lo sport beneficia tradizionalmente di «un significativo margine di apprezzamento nel determinare ciò che è necessario e proporzionato per raggiungere i propri legittimi obiettivi», e che di conseguenza:

La IAAF deve decidere ciò che è necessario e proporzionato per raggiungere i suoi obiettivi sulla base di una persona onesta e in buona fede che ha una base ragionevole. Finché tale test è soddisfatto, è irrilevante che altri possano non essere d'accordo con tale punto di vista, o possano citare altre prove scientifiche contrarie. Piuttosto, per avere successo nella loro appello, gli appellanti [gli atleti] devono dimostrare che una persona ragionevole che agisce in buona fede non potrebbe ritenere che le normative DSD siano necessarie e appropriate per raggiungere gli obiettivi legittimi della IAAF.

Qual è quindi il senso di chiamare in causa esperti scientifici per dirimere la questione del vantaggio «iniquo», se il limite dell’evidenza scientifica necessaria è fissato dal TAS a quello di una persona ragionevole che agisce in buona fede? È  sufficiente chiedere a un tizio a caso in un pub se secondo lui un’atleta con aspetto androgino come Semenya o Khelif è maschio o femmina.

Sebastian Coe ha spesso chiamato la World Athletics «il nostro sport», sostenendo che quindi la federazione è legittimata a implementare le proprie regole per perseguire i propri legittimi obiettivi. In una intervista recente rilasciata a CNN, Coe afferma: «Queste normative sono qui per restare, e se dobbiamo difenderle, lo faremo, e le difenderemo sulla base che è assolutamente vitale proteggere, difendere, e preservare la categoria femminile».

Mettendo da parte l’epanalessi del presidente della WA, volta evidentemente alla ricerca del pathos nel proprio pubblico, vorrei fare in conclusione una piccola domanda alle atlete in ascolto: non vi sembra di aver già sentito questa retorica? 

La questione dell’idoneità a competere nella categoria femminile si è trasformata, dobbiamo prenderne atto, in una vera battaglia ideologica. Non fidiamoci di chi dice che vuole fare qualcosa per il nostro bene, per proteggerci (ammesso e non concesso che lo stia facendo in buona fede). Alleiamoci tra di noi, prendiamo in mano la situazione e diciamo come la pensiamo in materia. Quali tipi di vantaggio consideriamo iniqui, e perché? Ci interessa davvero sapere il corredo cromosomico della nostra avversaria prima di competere contro di lei? Se sì, perché? E se no, per quale motivo? Quali evidenze considereremmo sufficienti per porre restrizioni ad atlete DSD a competere nella categoria femminile?

Come battaglia ideologica, la questione dell’idoneità a competere nella categoria femminile è davvero – questa sì! – una battaglia «ad armi impari», perché l’atleta è sempre l’anello più debole, più vulnerabile, di un sistema che non esita a sacrificarlo. Che non esita a sacrificare Caster Semenya, Dutee Chand, Christine Mbomba, Beatrice Masilingi, Imane Khelif; ma anche, è bene ribadirlo, Angela Carini. 

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