Caccia alla renna, caccia al cervo


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Di norma ai pranzi, alle cene o agli aperitivi di ogni ordine e grado si finisce a parlare di ciò che abbiamo guardato recentemente su Netflix o altrove: chances are, per dirla all’inglese, che in questi giorni ti sia capitato di parlare di Baby Reindeer, la miniserie autobiografica scritta e interpretata dall’attore, drammaturgo e comico scozzese Richard Gadd.

Nella serie Gadd, che ha trentaquattro anni, mette in scena la sua storia personale: quella dell’ascesa nel mondo dello spettacolo britannico, ma anche – anzi, soprattutto – quella delle molestie sessuali e degli stupri che, da giovane comico, ha subito da parte di un regista potente e affermato.

Il titolo, Baby Reindeer, compone invece un altro rimando autobiografico: la vicenda di stalking di cui Gadd è rimasto vittima nel 2015, quando lavorava in un pub per pagarsi le spese a Londra. Un giorno come un altro ha offerto una tazza di tè a una donna più grande, che si era seduta sola al bancone e gli aveva detto di non poter pagare la consumazione.

«I felt sorry for her». È la frase che Gadd usa sia in Baby Reindeer che nell’omonimo one-man show teatrale del 2019 da cui è nata la trasposizione oggi così popolare su Netflix: ha visto una donna di mezza età solitaria, grassa, all’apparenza socialmente emarginata, e le ha fatto una gentilezza. Lei ha reagito affezionandosi molto a lui.

«All’inizio tutti al pub pensavano che fosse divertente che avessi un’ammiratrice», ha spiegato Gadd al Times. Da quel giorno però Martha – il nome utilizzato nella serie è fittizio, per proteggere la privacy della donna realmente esistente – ha iniziato a perseguitare Gadd con migliaia di email, appostamenti, commenti gelosi o paranoici sui social e imboscate sotto casa o ai suoi spettacoli. Lo chiamava quasi sempre «baby reindeer», cucciolo di renna.

Il suo stalking è durato per quattro lunghi, snervanti anni, che nello show sono resi da una riuscita atmosfera perennemente cupa e ansiogena, come se il protagonista si trovasse in un labirinto privo di uscita: Richard Gadd è un uomo quasi trentenne fisicamente sano, e la polizia non vuole saperne di credere che la sua incolumità sia veramente messa a rischio da una signora sovrappeso che gli scrive a ogni ora del giorno.

In Baby Reindeer, quello che abbiamo visto in streaming, alla fine Martha ottiene nove anni di carcere e un’ordinanza restrittiva. Nella realtà non sappiamo cosa sia successo alla protagonista in negativo della storia; sappiamo solo che Gadd – come denota l’impianto della serie, largamente votato a ispezionare gli interstizi di un suo possibile, inconfessabile bisogno di lei, lasciando uno spazio alla pietà per la stalker – ha dichiarato di non aver voluto «mandare in prigione una persona così mentalmente instabile».

Ecco, parlando di persone mentalmente instabili: ogni giorno anche tu, caro lettore/cara lettrice, leggi tirando su col pollice decine, se non centinaia di post di persone che farebbero la fortuna di psicologi e psicoterapeuti (sia detto senza nessuno stigma, sia chiaro: andate dallo psicologo, anzi, se potete, ché fa solo bene).

La notazione en passant non è casuale, perché Baby Reindeer ha una storia sui social che comincia dove finisce quella in streaming: centinaia e poi migliaia di utenti si sono adoperati per rintracciare le identità della stalker che ha perseguitato Gadd e del personaggio influente del mondo dello spettacolo che l’ha stuprato, approfittandosi del potere che era in grado di esercitare su di lui.

Il regista e autore Sean Foley, in particolare, si è visto costretto a contattare la polizia dopo aver ricevuto centinaia di messaggi minacciosi in rete da giustizieri a mezzo smartphone; lo stesso Richard Gadd ha pubblicato una storia su Instagram per difenderlo, chiedendo al suo pubblico: «Per favore, non fate congetture su chi possano essere le vere persone coinvolte. Non è il punto dello show».

Il contrappasso in essere è particolarmente beffardo, ma anche così tristemente ricorrente da assurgere a paradigma: una serie nata col preciso intento di non additare colpevoli, preferendo riflettere fino all’estremo spasimo sul crinale che corre fra autoanalisi e rimosso psicologico, diventa l’ennesima chiamata alle armi per una pseudo-giustizia manichea, per l’adunata chiassosa di un esercito di detective a tempo perso.

Richard Gadd insisteva ancora nel 2019, ai tempi della prima comparsa teatrale di Baby Reindeer, dicendo: «Voglio davvero che capiamo che anche lei è una vittima in questa storia». «Lei» ovviamente è Martha, la donna che l’ha perseguitato, pedinato, spaventato, minacciato per quattro anni interi.

Se è Gadd stesso, la vittima, a chiedere la redenzione del carnefice, chi siamo noi per gettare il cuore oltre l’ostacolo affinché il colpevole subisca una damnatio memoriae pubblica? In nome di quale volontà collettiva superiore parliamo? E cosa dice di noi, prima che dei carnefici?

Nelle risposte alla storia di Gadd in sostegno di Foley, ripostata da quest’ultimo su Twitter (pardon, non lo chiamerò mai X), i commenti più gettonati dicono tutti più o meno così:

Nel film universalmente considerato il suo maggior capolavoro, Il cacciatore, il regista Michael Cimino ci ha mostrato la vita inizialmente tranquilla dell’operaio Mike Vronsky, grande appassionato di caccia al cervo, che verrà sconvolta dal Vietnam e da un mondo impazzito.

”Il cacciatore” (1978)

Mike, il cacciatore, ha una sua etica fondamentale: spara al cervo «un colpo solo», dandogli la possibilità di scappare e sopravvivere. Cimino ha dichiarato di essersi identificato con questo personaggio, «un uomo di principi» che presenta una sorta di sua «affinità spirituale» con il cervo a cui dà la caccia. «Non si è mai un buon cacciatore se non si è la preda stessa», a suo dire.

Il cacciatore è uscito nelle sale cinematografiche nel 1978. Quasi cinquant’anni dopo, per comprendere gli abissi che abitiamo non ci servono più le metafore della caccia, di Saigon in fiamme, dele roulette russe disperate o, se proprio, le complicate contraddizioni dell’umana pietà promosse dai colossi dello streaming: basta un algoritmo che crei il giusto effimero engagement. Con tutto quel che ne consegue.

Altre news dal fronte

  • Una gran bella lettura: i grandi college americani fanno da sempre marketing sulla loro lunga storia di proteste e attivismo, salvo poi chiamare la polizia quando qualcuno protesta;
  • Per non parlare del vicepresidente per l’inclusione all’Università della Northern Arizona che si mette a smontare le tende dei manifestanti pro-Palestina: il capolavoro, diciamo.

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